Kotoko - la recensione

[Venezia 2011] Ritmo rallentato e impennate di frenesia in un film che prosegue le indagini sul delirio mentale e l'oppressione del metallo di Shinya Tsukamoto...

Critico e giornalista cinematografico


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In Kotoko c'è un momento raro anche per il cinema di Tsukamoto, un momento in cui sembra che il regista si ponga un limite per poi superarlo, cioè sembra affermare che esiste un indicibile (o nel caso specifico infilmabile) e ne è palesemente terrorizzato lui per primo.

E' un momento in un film che spesso si dilunga (ci sono 3 canzoni di Cocco che sospetto essere sempre la stessa ripetuta), spesso ripete se stesso e altre volte prende binari talmente imprevisti da stonare. Non è insomma Tsukamoto al massimo della sua compattezza, quando a un'intenzione precisa come un rasoio fa corrispondere un'esecuzione rigorosa nella sua furia epilettica.

L'oggetto dell'indagine questa volta è una donna, madre di un neonato che, come sempre nel cinema del regista giapponese, è ossessionata senza un motivo particolare dal cemento, dal metallo e da visioni. Stavolta però, più che la carne, il centro di tutto è la mente (come già in Nightmare detective), e la mamma è tormentata iperbolicamente da timori e pensieri inconsci di morte del figlio se non proprio di omicidio di questi da parte sua (anche influenzata dalle continue notizie in materia che vede nei telegiornali). In mezzo una storia d'amore e violenza con Tsukamoto stesso (che se nei suoi film non si riprende con la faccia gonfia dai pugni non è contento).

Se dunque l'impianto sembra tsukamotiano al 100%, meno lo è il ritmo. Almeno fino a quel momento in cui l'ansia, lo stress e la tensione indotta dal pianto continuo ed ossessivo del bambino (che il regista mescola in un montaggio audio da urlo con i rumori, le grida degli adulti, lo stridio del metallo e l'oppressione dei suoni elettronici) sembrano culminare nell'omicidio efferato con arma da fuoco a pochi centimetri dalla testa del neonato. Ed è chiaro come il sole in quel momento che il regista è terrorizzato da quello che ha scritto ed ha paura a guardarlo (e quindi filmarlo), se lo raccontasse a parole la voce tremerebbe, se fosse lui l'operatore le mani gli tremerebbero.

Ecco questa straordinaria partecipazione al lento avvicinamento ad una paura che è tangibile e vera è la parte più forte di tutto il film.

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