Lo Hobbit: un Viaggio Inaspettato, la recensione [3]

Un nuovo inizio. Un fantasy neorealista. Un nuovo grandissimo Signore degli Anelli da parte di Peter Jackson. Anche se il titolo è Lo Hobbit...

Condividi

Peter Jackson ha fatto ancora una volta il miracolo.

Con la formidabile squadra composta dai collaboratori di sempre (Walsh, Boyens, Taylor, Lesnie, Shore, Hennah) più Del Toro alla sceneggiatura e la promozione da assistente a capo montatore di Olssen, il regista neozelandese è tornato nella Terra di Mezzo per Lo Hobbit.

Aveva il paradossale compito di sostituire al volo un suo nobile sostituto (Del Toro) e spiegare che ciò che viene dopo sullo schermo viene prima sulla pagina. Al cinema? Cavolo, è difficile.

Missione praticamente impossibile perché, grazie al potere della settima arte, quando tu fai vedere delle cose, e le fai vedere particolarmente bene come nel caso del Jackson dei tre film del Signore degli Anelli, è poi impossibile far tornare indietro lo spettatore a un sistema di immagini - se sei un grande cineasta è anche sempre un sistema filosofico e politico - che proponga qualcosa di diverso. Come far vedere una Terra di Mezzo più gioiosa e frivola, rispetto al mondo sull'orlo dell'apocalisse dei tre SDA di soli 60 anni più distante dalla spensieratezza di Lo Hobbit?

Come convincere lo spettatore, sempre proiettato in avanti e in cerca di conferme se ciò che ha visto lo ha convinto, a ripensare la Terra di Mezzo 60 anni prima, quando Sauron era lungi dall'essere corporeo e Saruman, già antipatico, non si era però ancora bevuto completamente il cervello?

Tutti sanno che Tolkien dovette prendersi più sul serio dopo il successo inaspettato dello Hobbit.
Scrisse Il Signore degli Anelli con più durezza, più parole, più angoscia, più stratificazione, più ambizione.
Lo Hobbit fu uno scherzo maledettamente non riuscito. Lo avevano preso troppo sul serio. Soprattutto l'editore, ansioso di volere altra roba proveniente dalla Terra di Mezzo visto il successone inaspettato delle avventure del simpatico Bilbo.

Ebbene, che ha fatto Jackson di fronte a questo bel problema cinematografico? Ha tradito Tolkien? Sì! E contemporaneamente... no! Sì, certo: c'è un po' più d'allegria da quelle parti. Ma sostanzialmente nulla è cambiato rispetto a SDA. Una grande forza malvagia (il Negromante) sembra stia radunando le proprie energie in una reggia abbandonata ma di minacciosa prossimità. Un piccolo anello esce dalle grotte delle Montagne Nebbiose. Saruman è già terribilmente antipatico. Gli orchi spostano il loro raggio d'azione.
Jackson non tradisce ma, da bravo adattatore, seleziona ed enfatizza.

Enfatizza il Negromante (Sauron sotto mentite spoglie; nel libro c'è; basta allora che la cinpresa lo inquadri), enfatizza lo spostamento degli orchi, enfatizza, in quella che è la scena più bella del film, il ritrovamento da parte di Bilbo dell'anello maledetto. E' quel piccolo “coso”, come ben sappiamo, il grande problema di SDA.
Dopo la visione più che fluida dei 173 minuti è chiaro che questo Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato è più il Lo Hobbit di Peter Jackson che viene prima, ma non troppo prima, rispetto alla sua monumentale trilogia SDA. Ed è chiaro che è molto lontano dal sottovalutato, da Tolkien in primis, Lo Hobbit letterario dello scrittore inglese. Bravo Jackson. Giusto così.

Risolto il problema più spinoso, a mio parere, veniva quello della forma. Come sono questi 48 fotogrammi al secondo in 3D con la nuova Red?
Pazzeschi. I primi 20 minuti mi sono risentito un bambino che rivedeva qualcosa di grande e sconosciuto davanti a lui. Mi piace? / Non mi piace?/ Mi piace? / Non mi piace? E così via... Poi ho deciso che sì: mi piace, e pure parecchio! E fino alla fine. E' un fantasy neorealista. Non esisteva questo genere cinematografico. L'ha inventato Peter Jackson. I 48 fotogrammi al secondo rendono tutto più concreto e tangibile. Un bosco è proprio un vero bosco, Gandalf sembra proprio davanti a noi. E' tutto terribilmente plausibile e alla nostra portata. Questo, filosoficamente, si sposa benissimo con l'idea di Tolkien di portarti dentro la Terra di Mezzo come fosse un mondo perfettamente a se stante e senza l'obbligo dell'enfasi, dal sistema fognario agli equilibri politici.

Come si sposano i tanti effetti speciali digitali con questa immagine più vera del vero?
Benissimo. Un momento stai vicino a Bilbo e Gandalf sentendo l'odoraccio dei loro corpi in viaggio, un momento dopo vedi un lupo mannaro completamente digitalizzato mischiarsi omogeneamente con la cacca d'uccello sulla faccia di Radagast.

Eccolo qui il vero protagonista del primo Lo Hobbit di Jackson: l'istari più francescano di Gandalf che parla e ospita nella sua testa (con effetti scatologici sopra evocati) gli uccellini, fa uso spasmodico di funghi allucinogeni (parole di Saruman nella sua seconda tirata contro le droghe leggere dopo l'epocale battuta de La Compagnia dell'Anello) e guida una slitta trainata da leprotti con una marcia in più. Sporco, trasandato, hippie e con look da barbone (Jackson la pensa come Terry Gilliam, non come Christopher Nolan) è, con il poco più pulito e borghese Gandalf, il massimo della saggezza, e dell'umana comprensione, della Terra di Mezzo. Mai dimenticare che il parallelismo tra marijuana ed erbapipa è già ben presente, forse a sua insaputa, nelle pagine del bizzarro cattolico papista Tolkien. Jackson non fa altro che selezionare ed enfatizzare e con questo frenetico Radagast, sciamano e ambientalista sciroccato, crea un modello per bambini ben più provocatorio rispetto al già notevole Jack Sparrow.

Che impatto può avere un personaggio come Radagast nella testa di un pargole?
Dinamite pura.
E' per momenti cinematografici come questo che penso che Jackson sia un grande autore, ovvero un artista in grado attraverso i suoi film di dire qualcosa di suo sul mondo.
Radagast potrebbe sembrare proprio il doppio di Peter Jackson stesso: visionario, gentile, modesto, totalmente privo di autoreferenzialità.

Grande personaggio il mago hippie con la cacca d'uccello sulla guancia, così come concreti e divertenti i nani che accompagnano Bilbo nel viaggio inaspettato. A differenza dei moscissimi nani di Biancaneve e il cacciatore, la squadra di Thorin Scudodiquercia è vivida, fortemente caratterizzata, dai look gustosi (il mio preferito è il saggio Balin: stranamente vicino al Dracula geisha di Gary Oldman per Coppola).

E Bilbo? Perfetto Martin Freeman e ancora una volta perfetta la scelta di casting. Freeman sembra per tutto il film “Martin Freeman che si trova improvvisamente dentro Lo Hobbit”. Questo mi ha fatto molto ridere. La sua perplessità è quella di Bilbo. Ancora una volta, come nel caso di McKellen, Jackson sceglie un attore apparentemente lontano dall'attitudine fantasy per permettere allo spettatore meno invasato, o tolkienano, di credere al film. Che classe. Che intelligenza cinematografica.

Memorabile lo scontro di indovinelli tra Bilbo e Gollum con il nostro ragazzo ex hobbit in forma più smagliante che mai nella prima scena in cui compare nella mitologia della Terra di Mezzo.
E' sempre la versione scheletrica di Peter Lorre (gli occhi spaventati) più la faccia di Andy Serkis. Il confronto con Bilbo è commovente. Due facce della stessa medaglia o meglio dello stesso anello: bravi con gli indovinelli, lesti a nascondersi, in grado di trovare divertimento anche nel momento di maggiore tensione. Il mostro possiamo sempre essere noi stessi. Alla faccia di chi, ancora oggi, pensa che Tolkien sia manicheo.

Gli orchi erano elfi.
Sauron era una “brava persona”.
Gollum era un hobbit pigro e di una certa avarizia proprio come il Bilbo meschino, rispetto al Frodo giulivo, dei primi minuti del film.

Poi le cose sono cambiate. E tutto cominciò con un viaggio inaspettato che Peter Jackson ha dovuto fare contro il tempo e contro i suoi stessi tre SDA.
Come è finita? Un nuovo inizio, un fantasy neorealista, una personale rilettura di Tolkien drammaticamente vicina a quell'originale letterario che, grazie a Jackson, ora può raggiungere sempre più persone.

Continua a leggere su BadTaste