Un regista russo (ma con una produzione francese) ovvero Kirill Serebrennikov. Un regista ucraino, ovvero Sergei Loznitsa, con un documentario che sì muove tra realtà e finzione. Entrambi a modo loro due monumenti del cinema d’autore e due colonne del Festival di Cannes. Ma entrambi anche un monumento alla lotta (cinematografica) contro la Russia di Putin. Loznitsa ha diretto un film, intitolato Donbass (presentato sempre a Cannes), in cui racconta una versione paradossale dello scontro tra Ucraina e “Nuova Russia”. Era il 2018. Serebrennikov invece è diventato negli anni un nemico del regime con i suoi film e le sue prese di posizione, fino ad essere costretto a non poter uscire dalla Russia. L’anno scorso Petrov’s Flu era in concorso ma lui non è potuto venire. Ora è fuggito.

Non era difficile immaginare che sarebbe andata così, cioè che ci sarebbe stata una simile presa di posizione dal festival di Cannes (che come molti altri maggiori aveva già annunciato che non avrebbe preso film finanziati dallo stato russo) ma è probabile che nessuno uguaglierà una coppia così simbolica.

Per il resto l’annuncio della line-up di oggi riporta le lancette indietro al 2019, a prima della pandemia. Con l’America che giunge in forze, i grandissimi autori chiamati a fare passerella e quella consueta aria da “festone dei vecchi amici” che Cannes ha assunto negli ultimi anni. Almeno metà del concorso e fuori concorso infatti è composto da nomi immensi, quelli i cui film tutti vogliamo vedere, che tuttavia non centrano un filmone all’altezza del loro nome da anni. La speranza è che ci sia almeno un caso Dolor Y Gloria, cioè di un cineasta dato per disperso che invece tira fuori un colpo di coda clamoroso. Ma sempre di colpo di coda parliamo.

Perché se il fuori concorso, andando a guardare nello specifico, è composto giustamente per fare il suo lavoro, cioè per attirare i grandi nomi, fare tappeto rosso, mostrare il lato spettacolare del cinema al suo meglio e celebrarne in questa maniera la capacità eccezionale di sapersi ancora posizionare al centro del discorso sociale e popolare (praticamente ci sono solo americani e francesi), mentre Cannes Premiere flirta con timidezza e un po’ di paura con la serialità televisiva (a Cannes è sempre pericoloso farlo perché gli esercenti francesi siedono nel consiglio di amministrazione e hanno un brutto carattere), il concorso sembra progettato per non far vincere niente di nuovo.

Veniamo da anni in cui nomi “relativamente” nuovi o davvero nuovi si sono portati a casa la Palma d’Oro. Anni in cui le giurie, sempre diverse, sono state molto chiare. A partire dal 2017 hanno vinto The Square (quinto film di Ostlund), Un affare di famiglia (Kore-eda non era proprio giovanissimo ma la sua esplosione in occidente era molto recente), Parasite (altro cineasta noto ai cinefili ma di casa ai festival maggiori da poco) e poi Titane (opera seconda). È dal 2016 che non vince un grande vecchio (Ken Loach con Io, Daniel Blake) e l’impressione è che quest’anno la partita sia stata acchittata per facilitare un premio ad un grande nome, di modo da confermare a tutti quelli in ascolto che a Cannes le vecchie glorie possono vincere.

Perché i contendenti più giovani, al netto di grandi sorprese, non solo non sembrano avere la stoffa della Palma ma nella loro filmografia non hanno niente di nemmeno lontanamente paragonabile ad un film da premio. Sembrano sparring partner facili da battere. Se poi si aggiunge che comunque questi sono una decisa minoranza rispetto ai nomi altisonanti (ma non sempre nella parte più in forma della loro carriera), è facile immaginare che quest’anno la Palma possa andare ad un grande vecchio del cinema o al massimo ad una conferma, cioè ad un cineasta come Cristian Mungiu (già vincitore) o Park Chan-Wook (già un cocco della cinefilia) o, se il film lo consente, in un impeto politico a Serebrennikov.

Ali Abbasi, Tarik Saleh, Saeed Roustaee, Valeria Bruni Tedeschi ma anche Kelly Reichardt e Claire Denis dovrebbero davvero stupire per andare a Palma. Forse solo Lukas Dhont, per quel che ha fatto vedere con Girl, qualora avesse realizzato un grandissimo film, potrebbe scippare il premio. Ma è 1 su 18.

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