Krull meritava maggiore fortuna

Krull compie quarant’anni, e il suo status di film quasi di culto non lo ripaga del tutto del flop che fu al botteghino

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Krull compie quarant’anni: uscì il 29 luglio 1983

L’aspetto più paradossale di Krull, conosciuto come uno dei flop commerciali più clamorosi dell’ultimo mezzo secolo, è che se uscisse oggi, nella sua forma attuale, senza ritocchi o “miglioramenti” e certamente non sotto forma di remake, no, puro, così come uscì quarant’anni fa, se arrivasse in sala, dicevamo, avrebbe un successo dieci, cento, mille volte superiore a quello ottenuto nel 1983. L’altro paradosso, ovviamente, che di paradossale in realtà non ha nulla ma è solo una malinconica constatazione, è che un film come Krull oggi non potrebbe esistere perché nessuno si sognerebbe di dare l’OK al progetto.

Krull è un film che oggi ci sembra fuori dal tempo per una lunghissima serie di ragioni. Innanzitutto perché è un progetto da studio, che non nacque da un input creativo esterno ma fu costruito a tavolino per soddisfare l’esigenza di Columbia Pictures di avere un film fantasy ad alto budget nel portfolio. Riuscite a immaginare oggi un exec che propone un’idea del genere? “Dobbiamo spendere un sacco di soldi per un film che non si appoggia a nessuna IP conosciuta e che non è nemmeno tratto da un libro, un fumetto, una serie TV!”: verrebbe immediatamente defenestrato come in quel meme. Nel 1983 – e davvero, non vogliamo farne un discorso nostalgico del tipo “una volta si stava meglio” – era ancora possibile non solo uscirsene con un suggerimento simile, ma convincere un gigante come Peter Yates (uno dei più clamorosi casi di “davvero non ha mai vinto un Oscar?” della storia) a dirigerlo.

Krull ottenne pure un budget clamoroso, intorno ai 30 milioni di dollari (oggi con l’inflazione sarebbero più di 90), oltre a un giovane ma già arcinoto e apprezzatissimo James Horner a scrivere la colonna sonora, 23 diversi set costruiti per l’occasione, una decina di sound stage dei Pinewood Studios occupati per mesi e pure un paio di viaggi alle Canarie e in Italia (tra cui l’immancabile sosta a Campo Imperatore). In altre parole ricevette un sostegno clamoroso, una spinta a diventare un nuovo culto in un’operazione che sembrava destinata a un successo già scritto.

E invece, per una serie di motivi alcuni dei quali ancora oggi intangibili, fu un disastro. Di certo non fu aiutato dal fatto che il budget in origine avrebbe dovuto essere molto più basso: lo script, firmato in origine da Stanwood Sherman, passò attraverso le solite mille riscritture di rito – anche abbastanza clamorose, se pensate che, in una versione scartata, la principessa Lyssa diventava cattiva sul finale del film –, e questo si ripercosse anche sui costi di lavorazione, perché i set venivano modificati in continuazione quando non demoliti e ricostruiti da zero. Costoso, certo, ma soprattutto specchio di una certa confusione creativa: sono pochi i copioni che riescono a sopravvivere al rituale della riscrittura iterativa, che a ogni nuovo passaggio aggiunge problemi che andrebbero risolti retroattivamente se solo ci fossero tempo e soldi per affrontarli.

Krull tempo e soldi li ebbe, ma fino a un certo punto: il risultato finale è un film con una sceneggiatura ampollosa e spesso ridondante, che come ha scritto il critico Eric D. Snider “sembra un riassunto orale del Signore degli anelli fatto da uno studente che non ha letto il libro”. Ci sono personaggi che compaiono e vengono dimenticati, snodi di trama che si basano su rivelazioni del momento che per comodità potevano essere svelate ore prima e che sembrano aspettare pazientemente nell’ombra il loro momento, e persino la storia d’amore tra il protagonista Colwyn (Ken Marshall, che dell’eroe ha solo il physique du rôle ma di certo non il talento o il carisma) e la principessa Lyssa (Lysette Anthony, costretta dalla sceneggiatura a galleggiare in un affascinante vuoto visivo per grande parte del film) è scritta con il trasporto di una cartella esattoriale, e interpretata con l’alchimia che c’è tra voi e quell’impiegato delle Poste che vi ignora da mezz’ora anche se non ha niente da fare.

Eppure è impossibile, al netto dei suoi notevoli e già sviscerati difetti, non apprezzare Krull per quello che prova (e a tratti riesce) a fare. È un mistone di generi che oggi farebbe la gioia di qualsiasi amante del multiverso: c’è il fantasy con le principesse, i castelli, le streghe e i ragni giganti, ma c’è anche la fantascienza (di fatto Krull è un film di invasione aliena), c’è un tocco di western come lo intendeva John Carter da Marte, tantissima cappa e spada, e c’è anche una creatività sfrenata nel world building (si veda solo l’idea del castello nel cielo, tre anni prima di Laputa) e la voglia evidente di raccontare una storia epica che possa far concorrenza sia a Tolkien sia a George Lucas. C’è persino la più inaspettata delle citazioni a Steven Spielberg, e una a Tolkien che visivamente anticipa in qualche modo la versione cinematografica di Jackson.

Al tempo Krull venne smontato anche perché troppo derivativo: corretto, ma allora perché solo qualche anno prima Star Wars venne lodato per lo stesso motivo? Certo, la trilogia originale di Lucas ha il vantaggio di essere scritta con una precisione che tracima spesso nella perfezione, che la mette al riparo da molte critiche. Ma Krull ha per lo meno lo stesso spirito, la stessa voglia un po’ pulp di inventarsi un mondo nel quale convive il meglio di tutte le cose che ci piacciono, dalle astronavi agli spadoni a due mani, dai cavalli ai raggi laser. È un film felice di stare raccontando una storia con questo respiro e queste ambizioni: molte sequenze (in particolare quelle più d’atmosfera) sono stirate oltre il limite del buon senso, solo per farci godere del tempo passato su questo bizzarro pianeta dove le guerre si risolvono ancora facendo sposare due rampolli reali.

Come molti prodotti di quegli anni che furono demoliti dai loro contemporanei, anche Krull ha comunque conosciuto una seconda giovinezza, ed è stato rivalutato con gli anni e il crescere della nostalgia. Non ha mai però davvero fatto il salto, non è mai diventato un culto incontestabile né ha mai goduto di una rilettura critica postuma in positivo. È un film storico più per l’età che ha che per com’è ricordato, o per il segno che ha lasciato sulla storia del genere. Eppure avrebbe meritato più fortuna, perché al netto di tutti i suoi difetti è un’opera con un cuore grande e con ambizioni ancora più sconfinate. Chissà, magari se fosse stato accolto bene avrebbe cambiato il futuro, e oggi vivremmo in un’utopia dorata nella quale al cinema escono solo storie originali e non esistono né adattamenti né remake. Da qualche parte nel multiverso è andata sicuramente così.

PS: sì, nel film ci sono anche un giovane Liam Neeson e un giovane Robbie Coltrane. Il primo si fa notare più del secondo, il quale, poveraccio, è addirittura doppiato da un altro attore anche in originale.

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