Martin Scorsese, il regista che ne contiene almeno 5 diversi dentro di sé

“Uno per me e uno per gli studios”, cioè girare film per compiacere i produttori, incassare, seguire le linee guida di Hollywood e anche per “pagare” gli altri, quelli invece girati per sé, a budget minore e libertà superiore. La sua libertà Martin Scorsese l’ha sempre dovuta acquistare, come la compravano molti dei grandi registi della Hollywood classica, con la moneta del lavoro. Non è certo il solo in America a ragionare così ma forse è il più grande di questi e uno dei pochissimi per i quali è spesso complicato dire quali siano i film per gli studios e quelli per sé (ad esempio uno dei suoi più amati, Quei bravi ragazzi è uno per gli studios, e uno dei più ambiziosi e cinefili del primo periodo, New York New York, era uno per sé). Eppure non ci sono solo queste due anime dentro il regista che oggi compie 80 anni, ma di più. Almeno 5 che continuamente vengono in superficie e pretendono un film. Non sono fasi della sua carriera, sono proprio registi diversi che convivono e alle volte si sovrappongono per creare quello che sicuramente è l’autore americano più importante dagli anni ‘70 ad oggi.

L’indipendente

Lo è stato all’inizio della sua carriera, come molti. Come pochi invece lo continua ad essere di ancora. Mean Streets è stato per anni uno dei film indipendenti di maggiore successo di sempre, in un’epoca soprattutto in cui il cinema indipendente non aveva sbocchi, distribuzioni e pubblico come è accaduto dagli anni ‘90 in poi. Un film che come pochi altri era una rivoluzione di uso della camera, della voce fuori campo e della musica, tutta contenuta nella prima scena, mostruosa, in cui l’audio delle strade non sfuma ma strappa contro le Ronettes mentre invece che zoommare su Harvey Keitel che si sdraia compie tre stacchi sempre più vicino, fino a cogliere la cosa meno prevedibile: le lacrime per un incubo. Una scena tranquilla che contiene un nervosismo gigantesco.

Scorsese periodicamente è dovuto tornare ad essere indipendente, cioè a trovare finanziamenti per i suoi film al di fuori degli studios, che in America significa entrare e uscire da tutto un altro sistema oltre che di compensi anche proprio di industria, come per Fuori Orario o recentemente per Silence. E nonostante possieda la rara capacità di sapersi muovere nelle maglie dei dettami degli studios, è poi nei suoi film indipendenti che riesce a non avere regole, esagerare e fare tutto quello che altrove sarebbe impensabile. Molti altri, al suo posto, semplicemente certi film non li girano se non riescono a farli andare bene agli studios.

Il regista di sistema

Sono i film fatti per Hollywood. Hugo Cabret forse è il più grande e famoso ma anche The Departed, Quei bravi ragazzi o Shutter Island e The Wolf Of Wall Street appartengono alla categoria. Di fatto alcuni dei suoi film più noti e premiati sono quelli fatti per gli studios. La grandezza di Scorsese sta in come ogni volta li trasforma in un’occasione per sperimentare tecniche nuove, per muoversi in ambienti che conosce meno. E quel che avviene è che, con poche eccezioni, il risultato sono film con storie che non sembrano appartenergli, dentro le quali invece lui riesce a trovare il suo angolo, cioè la lente attraverso la quale leggere tutto ciò che riflette le sue ossessioni e le sue paure. 

Martin Scorsese è uno dei pochissimi registi che, mentre raccontano e riprendono la parte peggiore dell’umanità, nelle loro immagini è facile leggere il loro stesso terrore di quegli abissi, la cui violenza colpisce non per l’efferatezza ma per come metta a nudo qualcosa di spaventoso di cui il film stesso sembra essere terrorizzato. La fascinazione di Karen Hill per quella pistola che Henry Hill le mette in mano, fascinazione che lei riconosce subito non appartenere alle sue amiche ma essere tutta sua ed essere di natura sessuale, lo spiega bene. Lo strumento di violenza insanguinato, nelle sue mani con le delicate unghie lunghe accende qualcosa in lei che la porta a seguire Henry nel derelitto finale, è quell’attrazione morbosa che vede ma non sa contenere. C’è tutta la sua vita, l’interesse morboso per i gangster e la sopraffazione, unita al timore e alla certezza che porti sul percorso peggiore. Ma non è da meno il momento di Wolf Of Wall Street in cui la zia della fidanzata di Jordan Belfort si accorge che in un qualsiasi momento del giorno, al parco mentre parlano tranquillamente, lui suda eccessivamente perché è strafatto. Sembra in controllo mentre è totalmente fuori controllo e con calma senza eccessi delira al punto di convincersi che quella signora di una certa età ci stia provando con lui.

Il documentarista

E poi ci sono i documentari. Ne ha realizzati per tutta la vita. Documentari molto spesso musicali, la seconda passione della sua vita, ma anche documentari sul cinema (Viaggio nel cinema americano, Viaggio nel cinema italiano), documentari sulla sua famiglia (Italianamerican) e documentari su persone che conosceva (American Boy), documentari come forma di sperimentazione cinematografica, ripresa della vita reale e trasformazione del vero in falso.

Senza i documentari sui suoi familiari, le tradizioni e la maniera in cui i genitori abitano le inquadrature non ci sarebbe mai potuta essere la scena di Quei bravi ragazzi in cui Robert De Niro interagisce con quella naturalezza con la madre di Scorsese (impiegata come attrice), in uno scenario domestico perfettamente credibile e tradizionale nonostante ci sia un cadavere nel bagagliaio della macchina parcheggiata fuori. O forse proprio per quello. Il cinema non è solo quella cosa che viene fatta sul set ma è la maniera in cui possiamo guardare al mondo diversamente. Quando Scorsese impara come riprendere i suoi genitori a quel punto può inserirli in un film, ha capito come possono essere guardati per essere paradigmatici non solo di sé stessi ma di qualcosa di più ampio.

Il cattolico

È forse il dettaglio per il quale è più noto. Martin Scorsese, che quasi stava per diventare prete prima di sostituire il crocefisso con la macchina da presa, si è dannato tutta la carriera per capire il mistero della fede, per raccontare come un’educazione religiosa influenzi la visione del mondo. Nei suoi film, e quindi nelle storie che racconta e come le racconta, inevitabilmente i peccati finiscono sempre per essere lavati nel sangue, come nell’antico testamento. E non è un caso che poi la collaborazione più fruttuosa l’abbia avuta con Paul Schrader, calvinista, anch’esso ossessionato da un’educazione religiosa rigida. Quei personaggi che partono con Taxi Driver e arrivano a Al di là della vita, uniscono sempre la trascendenza ad una vita estrema se non proprio alla droga.

Il paramedico Frank Pierce che sta male, come un drogato in astinenza, perché non salva persone da troppo tempo, che vaga nelle notti terribili di Manhattan vive in un girone del suo inferno personale, completamente fuori di sé, con occhiaie vistose e un umore che peggiora di notte in notte. È un uomo che non trova pace per sé, non nomina mai la religione ma ha chiaramente un rapporto trascendente con l’esistenza, uno che si nutre del suo opposto della parte più terrena, come un missionario, girare, incontrare gente (tra cui tre colleghi uno peggiore dell’altro, uno più significativo dell’altro), cercare di salvarle senza riuscirci e poi incontrare delle donne. La religione trovata dove nessuno la cerca. E poi ci sono invece i film più diretti come Silence, che contiene forse l’inquadratura più significativa e chiara (specialmente per chi non crede) su cosa possa significare una fede, quando alla fine, uno zoom impossibile entra nella botte in cui brucia il cadavere di Andrew Garfield, da una vita convertito al buddismo ma che nasconde un piccolo crocefisso nelle mani, un oggetto minuscolo che brucia di luce dentro le mani, di nascosto da tutti, senza che ci sia più stato bisogno che qualcuno conoscesse l’esistenza di quel che rappresenta, dentro quella persona, mentre brucia. Tutto in quell’immagine è perfetto, come un’illustrazione o un quadro. Esattamente il lavoro del cinema, anteporre le immagini alle parole.

Il musicista

Di strumenti, non risulta che Scorsese ne sappia suonare ma la musica la conosce. Non solo è stato uno dei più rivoluzionari nella maniera in cui la musica non originale viene usata al cinema, ed ancora oggi la maniera in cui monta la musica sulle immagini è unica, ma è stato anche uno dei più grandi cantori di quell’era che va dalla fine degli anni ‘60 (lui era uno degli operatori del famoso film documentario Woodstock) alla fine degli anni ‘70. La serie Vinyl, i concerti dei Rolling Stones e di The Band ripresi integralmente, i video musicali (storico quello di Bad) e poi i cortometraggi fondati sulla musica.

C’è niente di più clamoroso del suo segmento di New York Stories? Quello in cui un pittore rovinato (Nick Nolte) dalla passione per una donna dipinge con Whiter Shade Of Pale in sottofondo e litiga con Like a Rolling Stone per spiegare lo strano rapporto che esiste tra ciò che si fa e come una musica riesca a tirare fuori performance, pensieri, sensazioni e desideri che altrimenti non sapremmo nemmeno stare lì?

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