Neon Genesis Evangelion, una delle serie più importanti della storia dell’animazione seriale giapponese, ha una storia e un pregresso complicati: nasce come prodotto originale per la tv e non, come la gran parte dei prodotti, come versione animata di un manga, più o meno allungato con puntate filler per motivi di tempistiche; inoltre, ha un finale notoriamente incompleto da un punto tecnico e contenutistico: due intere puntate ricche, ricchissime, di astrusi dialoghi introspettivi, una vera e propria seduta psicoanalitica a cartoni animati ospitata all’interno di una serie di fantascienza da cui tutti si aspettano due puntate finali ricche, ricchissime, di rivelazioni, combattimenti, morti e struggimenti d’animo. Tutti avranno solo le ultime due cose, e in maniera decisamente diversa dal previsto.

Vi abbiamo dato, nei precedenti speciali, le coordinate per orientarvi in questa giungla: oggi scenderemo nel dettaglio dei due film animati che vanno, in un modo o nell’altro, a rivedere e concludere la serie animata.

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Un finale controverso…

Inutile girarci attorno: il finale della serie è una pezza cucita alla buona, se non una vera e propria presa in giro: «Dovremmo raccontarvi questo e questo, ma… non c’è tempo». Non c’è modo. Non ci sono i soldi. Ecco quindi un finale che lascia insoluti molti misteri, con una serie di scusanti paracule. Eppure, è sbagliato dire che la serie di Eva non abbia un finale. Il senso del finale originale è lì, non sarebbe cambiato anche ad avere sacchi di monete d’oro e mesi di tempo: Anno voleva dare alla sua storia un finale con un significato ben preciso: voleva far comprendere al proprio protagonista che tutte le battaglie che ha vissuto, interne ed esterne, non erano tanto contro misteriose divinità aliene quanto contro l’animo umano… l’altrui e il proprio. Il messaggio verso gli otaku ne risulta, anzi, amplificato. «Volevate lo scontro finale tra mostri e robottoni? Maddai. Piuttosto, crescete, uscite di casa, fate nuove amicizie, apritevi almeno un po’ al mondo, anche se fa male: vivete.»

…che è solo l’inizio di un nuovo viaggio.

Ma rimane comunque, per lo staff, l’onta personale di aver presentato un lavoro incompleto. Rimane, da parte del pubblico, lo scontento di non sapere cosa succede ai personaggi, al di là delle chiacchiere formative, profonde e bellissime quanto vogliamo, ma al limite della pubblicità ingannevole. Una manciata di mesi e Gainax dunque torna in carreggiata, presentando una coppia di film che avrebbe dovuto presentare il “vero” finale, nonché un sequel / spin-off. Tutti entusiasti, finché non arrivano nuove problematiche di tempistiche e fattibilità.
L’idea si trasforma: la prima pellicola diventa un film di montaggio che riassume la serie, la seconda andrà a concluderne le apocalittiche vicende. Un’idea funzionale, sulla carta, che naturalmente andrà incontro a numerose modifiche in corsa… e anche postume.

Come tutta l’animazione di Evangelion, difatti, nel corso degli anni subirà cambi e modifiche, anche sostanziali, al montaggio, difatti ridefinendo le varie versioni con sigle, se non titoli, differenti: Death & Rebirth, il primo film, diverrà in seguito Death(True) e ancora Death(True)2, oltre che venire rimontato nel cosiddetto Feature Film insieme a quello finale, The End of.

Questo perché la sua natura di rimontaggio si presta a diverse manipolazioni da parte degli autori (Anno in primis) a seconda delle condizioni del momento e di quel che si vuole rappresentare. Inizialmente, Death presenta un rimontaggio dei primi ventiquattro episodi, intervallato da nuovi segmenti, mentre lo spezzone Rebirth porta su schermo il primo segmento di The End of. Una volta concluso e rilasciato The End of, Rebirth non serve più e viene tranciato dalle versioni successive.

La pratica del film di montaggio non è inusuale per certe serie nipponiche di successo: negli ultimi anni, ad esempio, li abbiamo visti per L’Attacco dei Giganti, risultando dei comodi (quanto sommari) bignami. Rebirth, tuttavia, non vuole essere un sunto della serie. Non guardatelo “per far prima” per poi passare al The End of senza aver prima visto la serie. Non ci capireste quasi nulla. Ribirth è una sorta di ripasso, che ripresenta momenti salienti della serie (tecnicamente migliorati rispetto alla messa in onda televisiva) in ordine non cronologico ma di significato, spostando il focus di volta in volta su protagonisti diversi: Misato, Shinji, Asuka, Rei, Kaworu… ma non solo. Anche se, chiaramente, la figura di Katsuragi e quella del “quartetto d’archi” sono centrali e portano avanti tutti i discorsi narrativi e i sottotesti umani, incrociandoli a quelli degli altri personaggi, da Gendo a Toji.

Il montaggio differente permette non solo di ripassare gli eventi, ma di dar loro nuova linfa vitale, di suggerire nuovi spunti e collegamenti… insomma, nuova carne al fuoco della discussione, già ben lungi dall’essersi conclusa e dal venire conclusa, ma anzi amplificata, da questo film.

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E, alla fine, arrivò la fine.

I film divisori, solitamente, si amano o si odiano. The End of riesce a farsi amare e odiare in contemporanea, per motivi diversi e con effetti diversi a seconda dello spettatore. Artisticamente, per questo, possiamo sicuramente considerarlo un capolavoro. Come lo è, del resto, a livello tecnico: uno spettacolo visivo, un’orchestrazione musicale assoluta, tutti i nodi che vengono al pettine, anche se certi passaggi sul finale divengono assolutamente criptici. C’è spesso, nel cinema giapponese, il voler non essere palesi ma demandare al proprio pubblico l’interpretazione di un passaggio, di una scena, di una parola. A un certo punto, date le nozioni base, The End of Evangelion è completamente in mano allo spettatore: alcune cose sono spiegabili con la logica, altre sono completamente a interpretazione libera, finale compreso. Certo, se si conoscono (o riconoscono) i riferimenti iniziali di Anno è più semplice comprendere i meccanismi narrativi, i topoi dove si vuole andare a parare, da Go Nagai ad Arthur C. Clarke.

La spettacolare e tensissima battaglia finale multipla è disperata, emozionante, densa di pathos, ma a un certo punto la trama prende una direzione da cui è difficile tornare indietro e il pubblico meno attento, inevitabilmente, si perde. Quel che appare chiaro, ad ogni modo, è che Anno ha dato al pubblico quello che voleva: un finale combattutissimo della storia, con tutti i crismi. Ma lo frust(r)a nuovamente, con un finale decisamente meno accomodante del precedente, intriso delle stesse considerazioni ma decisamente più disperato e triste. Un mare rosso si stende e lambisce le coste.

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