È molto facile voler bene a un film come I segni del cuore – CODA. Ed è altrettanto giustificabile una eventuale antipatia che deriva dall’avere di fronte un buon film a cui sono stati attribuiti premi molto più pesanti di quelli che si sarebbe meritato. È pure un remake, e la cosa nell’immaginario comune non depone a suo favore. In fondo che male c’è? Si veda Dune, West Side Story, La fiera delle illusioni… sono rifacimenti di film tratti da libri, e quindi nuove trasposizioni, ma in fondo cosa cambia? 

Il problema è che I segni del cuore viene dal già amatissimo e correttissimo La famiglia Bélier. Se il primo è il caso di commedia riuscita con spontaneità e fortuna, il secondo è invece un’operazione pensata a tavolino per far sì che l’inclusione sia il suo vero – unico – elemento di originalità.

Ancora una volta non c’è niente di male. Quanti film raccontano storie già viste mille volte pur trovando una ragione d’essere in una piccola differenza produttiva? Haneke ha rifatto due volte Funny Games e le due versioni sono pressoché identiche. Eppure si potrebbe scrivere un intero libro tanto i due film e l’idea che sottende questa concezione di remake sono potenti e stimolanti. 

I segni del cuore è un buon film da cui ci aspettiamo l’eccellenza

Parliamoci francamente: se I segni del cuore – CODA non avesse vinto l’Oscar come miglior film, oggi staremmo tutti parlando di una piccola perla nascosta nei cataloghi delle piattaforme da recuperare assolutamente per passare un pomeriggio di leggerezza e buoni sentimenti.

Invece l’onorificenza è così grossa da trascinare a fondo il film. Impossibile non vederlo con aria di sfida. Ci sediamo in poltrona chiedendoci “chissà che cosa c’è di speciale”; ordinando al film di stupirci, di darci qualcosa di sensazionale.

Eppure I segni del cuore – CODA non lo fa. Non per colpa sua, semplicemente perché non è stato concepito con questo intento. Lo è semmai Il potere del cane, che fino a un decennio fa sarebbe andato in sfida diretta con Dune per i premi più importanti. Come dimenticare la rivalità blockbuster – arthouse tra Avatar e The Hurt Locker? 

Il cast è eccezionale. Tre su quattro elementi della famiglia Rossi sono interpretati da attori realmente sordi. Sono travolgenti, perfetti nell’esprimersi in concitati dialoghi attraverso la lingua dei segni. 

La regista Sian Heder ha pertanto strutturato l’intero film intorno a questa singola idea. A questa ha affidato tutte le emozioni, le scelte di regia, e le scene madri.

Ci sono film che venderebbero la celluloide al diavolo per aver una ragione di esistere come questa. Solo che se ce l’hanno e riescono a reggersi in equilibrio tra impegno, risate, lacrime e sperimentazione non ci aspettiamo un plauso. Non certo che vincano l’Oscar!

Che cosa ci dicono veramente gli Oscar?

La fama che precede gli Academy Award è infatti, in maniera assolutamente ingiustificata dalla storia e dalla tradizione, quella di un “sigillo di qualità”. Non staremo qui a elencare le grandi rapine al treno fatte da buone opere il cui titolo è stato scritto nella busta al posto di autentici capolavori. Sta di fatto che tra le tante cose che influenzano questi premi, la qualità è in assoluto il fattore più trascurabile, soprattutto nelle categorie principali. Serve semmai per entrare nella cinquina (o nella decina), poi da quel momento in poi la partita si gioca su altri valori: popolarità, importanza nel contesto storico, originalità, sentimento generale, efficacia della campagna promozionale. 

Quest’anno era evidentemente importante produrre un’opera che potesse dimostrare come includere non significhi rinunciare a qualcosa, ma migliorare il risultato finale. È piaciuto che un film parlato per quasi la metà a segni potesse funzionare, passare nei festival di cinema indipendente e piacere al pubblico.

Coda i segni del cuore

I segni del cuore – CODA gioca bene con i pieni e i vuoti, con i silenzi e con la musica. Quante emozioni facili nella sequenza del saggio musicale, in cui si ride guardando lo straniamento dei genitori per entrare poi nel loro silenzio, mentre guardano la figlia che si esibisce. Sanno che la figlia sta andando alla grande perché intorno a loro la gente si commuove. Loro non possono fare la stessa esperienza e anche noi ne veniamo privati.

Il colpo facile viene dal momento successivo. Il papà, Frank, chiede alla figlia Ruby di cantare per lui. Le sfiora il collo con le mani per sentire le vibrazioni delle corde vocali. Si avvicina per percepire il fiato sul suo volto e leggere il testo dalle sue labbra. È tutto ben disposto, come mettere in buca una palla che si è fermata a pochi centimetri dalla meta, ma non è scontato saperla portare fino a quel punto. 

La disabilità dentro I segni del cuore

La disabilità è tutta al contrario: all’interno della famiglia l’elemento percepito come più fragile, da gestire e da aiutare più di altri, è proprio Ruby. La madre le confessa addirittura che al momento della nascita ha pregato perché lei non ci sentisse. Perché poter ascoltare significa vivere il mondo in un modo diverso, e temeva che questo le avrebbe allontanate.

Jackie è una mamma complessa non caratterizzata solo dalla sua mancanza di udito. Le sue angosce rappresentano quelle di tutti i genitori, alcune sono invece ribaltate al contrario. È infatti l’assenza di disabilità di Ruby ad angosciarla. 

Come ogni film di formazione ci sono poi amori tormentati, c’è un percorso di apprendimento qui rappresentato dal professore di musica Bernardo Villalobos (che ottimo volto quello di Eugenio Derbez, l’attore che lo interpreta). Lì I segni del cuore mette però il minimo impegno. Ricalca cliché e soprattutto li piazza nel film in maniera netta, goffa, e quindi frustrante. 

Una nomination dimenticata

coda-emilia-jones i segni del cuore

Troy Kotsur è divertentissimo, ma se lui è meritevole di una statuetta perché non nominare anche Emilia Jones? La sua crescita attoriale è stata notevole in pochissimi anni, passando dal durissimo Brimstone all’altrettanto duro La casa delle bambole. Per otto mesi ha studiato la lingua dei segni americana e il canto, padroneggiando bene tutte e due. Lei sembra vivere in quella famiglia da sempre. Le si crede quando comunica, è brava ad arrabbiarsi, a rilassarsi, a fare le battute, senza usare la voce. 

E invece è stata dimenticata. Colpa del “politicamente corretto”? Forse, ma sarebbe una prospettiva miope di una questione un po’ più sfumata. Semplicemente la sua performance non è quella che interessava all’Academy quest’anno. L’opera di restyling dei premi, che li ha portati ad essere più attenti alla realtà, ha trovato nell’attore non protagonista de I segni del cuore – CODA esattamente quello che si erano ripromessi di premiare.

Il miglior film è la migliore produzione dell’anno. Non l’opera più bella. Secondo questa logica è naturale premiare chi ha avuto l’ardire di mettere i soldi in un qualcosa con un’esecuzione così diversa. Con il coraggio di essere aderente alla disabilità che racconta.

Il problema è che questa volta, invece che aiutare a far conoscere una pellicola piccola e graziosa, l’operazione della giuria le ha dato il colpo di grazia. Perché non lo vedremo mai più come il prodotto genuino e senza (troppe) pretese autoritari che invece è. La mediocrità fa sempre più male quando viene raccontata come l’eccellenza.

I segni del cuore – CODA è anche il primo prodotto di una piattaforma streaming a vincere l’Oscar più importante ed è anche il primo a raggiungere questo risultato arrivando dal Sundance. Quindi, che lo si voglia ammettere o no, un piccolo pezzo di storia l’ha fatto comunque.

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