Questo è il cinema del futuro: un’industria di musichette, mentre fuori c’è la morte”.  La filosofia da attore di Ryan Reynolds potrebbe benissimo essere presa dal celebre monologo dello sceneggiatore di Boris interpretato da Valerio Aprea. Sì, la locura. “Smaliziata e allegra come una cazzo di lambada“.

Si ama dire dei grandi registi e sceneggiatori che quando hanno raggiunto il loro apice di carriera sono diventati aggettivi: felliniano, lynchiano, sorkiniano… Ryan Reynolds invece è diventato una categoria del marketing. Geniale, certamente, talvolta più sottile di quanto si pensi (Deadpool 2 non è altro che un grande mea culpa spolvera coscienza rispetto ai fallimenti del passato). Però il secondo tempo della carriera dell’attore è sempre più intrecciato con la vendita di sé, delle proprietà intellettuali, e dei prodotti commerciali, che con l’azione di fare cinema puro. Un ibrido però interessantissimo per l’analisi audiovisiva.

La cronologia degli eventi ci aiuta a ricostruire il percorso. In particolare il momento in cui Deadpool si è trasformato in Ryan Reynolds e gli ha ribaltato l’immagine pubblica salvandolo dall’anonimato delle celebrità che non sono riuscite a passare il primo decennio del nuovo millennio.

Classe 1976, Reynolds inizia a lavorare rimbalzandosi tra cinema e tv. Il primo ruolo che gli offre una buona visibilità è quello nella commedia demenziale Maial College. Non il migliore degli inizi. Segue poco dopo, nel 2004, la partecipazione a Blade: Trinity. Un film che segnerà dal punto di vista qualitativo tutte le sue esperienze successive con il genere del cinefumetto. Per lo meno fino all’incontro di Deadpool, quello vero, non l’anonimo villain di X-Men le origini – Wolverine. Blade gli serve però per farsi il phisique du rôle, e accumulare quella giusta massa di muscoli che lo lanciano come sex symbol. Uno status che gli permette dii superare il fallimento di Lanterna Verde.

Si mantiene così tra pubblicità, flop ben pagati e commedie romantiche con Sandra Bullock. La fama di Ryan Reynolds non se l’è mai passata troppo male, ma non è mai riuscita a decollare. C’è stato anche qualche timido tentativo di renderlo una star action come con Smokin’ Aces di Carnahan, ma nulla in grado di imporsi veramente. Un primo grande spartiacque fu invece Buried – Sepolto. Il film in solitaria, diretto da Rodrigo Cortés in cui si risveglia chiuso in una bara, dotato solo di pochi oggetti e deve trovare il modo di liberarsi. Un thriller riuscitissimo, di ispirazione tarantiniana (il suo episodio di CSI: Sepolto Vivo, ma anche Kill Bill: Volume 2). In quel momento si pensò a Ryan Reynolds come attore vero, strutturato, capace di reggere un film sulle proprie spalle grazie al proprio talento. Fu l’ultima volta, più o meno. 

A differenza di molti colleghi infatti, con l’avanzare dell’età, non si è mai fatto crescere la barba. Ovvero: non ha mai avuto ambizioni di rilancio in senso maturo per un pubblico adulto. Matthew McConaughey è stato il maestro in questa trasformazione, ad esempio. Reynolds invece ha fondato un’azienda di comunicazione: la Maximum effort. Lanciata con il collega George Dewey dopo aver collaborato al lancio di Deadpool, la società è la piattaforma in cui il suo talento è riuscito a emergere maggiormente negli ultimi anni.

 

 

Negli spot e nelle campagne di comunicazione da qui in poi, l’attore non scompare dentro il personaggio. Anzi, diventa lui stesso il personaggio! La sua personalità mediatica, costruita a tavolino, diventa un carattere-tipo: l’adulto eterno ragazzo, divertente ma un po’ ingenuo. Un combina guai che sa sempre come uscirne. E soprattutto è sempre “quasi consapevole” di essere in un prodotto audiovisivo, sia uno spot o un film.

La personalità “meta” di Ryan Reynolds attinge a piene mani dall’approccio distruggi quarte pareti del supereroe Marvel. Come Chris Hemsworth si è gradualmente adeguato a quell’immagine muscolare e proteica di Thor, così l’umorismo di Deadpool ha influenzato la Maximum Effort. 

Più consapevole dei propri limiti tenta di nuovo la via dell’action con 6 Underground e Life, dove cede alla tentazione di farsi dare la morte furba e cool. Fa un salto anche in Hobbs & Shaw, ma tende a farsi affiancare da altre star, a dividere il peso del film (meno della promozione).

In Free Guy le cose cambiano un po’. È lui la vera star assoluta e soprattutto il film sembra scritto a partire dalla sua presenza nel cast. C’è il metacinema (e metavideogioco), ma c’è anche un’autoironica esaltazione del suo ego: la versione muscolosa e incompiuta di Dude. C’è moltissimo di Deadpool in Free Guy, e c’è così tanto per un solo, sciocco, motivo: condividono lo stesso attore.

Chissà cosa farà ora che il personaggio è entrato nel gigantesco multiverso Marvel. Ne abbiamo avuto un accenno in tutto il terzo atto di Free Guy. Per certi versi divertente, ma una sezione di film che non riesce a levarsi di torno la sensazione di stare guardando un gigantesco product placement. Questo è il nuovo Reynolds, che piaccia o meno, è l’unico in grado di fare quello che fa senza sembrare il più grande banner pubblicitario di sempre.

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