Signs parla di un uomo alla ricerca della fede e di una famiglia che vaga in cerca di una risposta al suo dolore. Poi ci sono cerchi nel grano e alieni, ma sono molto meno importanti.

Sono così i migliori film di Shyamalan: sotto un’ingombrante storia fatta di sospensione del respiro e dell’incredulità, di curve e inversioni a U, c’è una tensione esistenziale. I personaggi sono inquieti, alla ricerca di un qualcosa che si rivela essere un’accettazione di quella che è la propria realtà.

Accettare di essere morti, questo era il Sesto senso. Accettare di essere vivi, questo è Signs, che questa settimana ha compiuto 20 anni.

Signs: un’invasione globale in una storia famigliare

Mel Gibson interpreta Graham Hess, un pastore protestante ritiratosi a vita privata. trascorre le giornate nella contea di Bucks in Pennsylvania con il fratello Merrill (Joaquin Phoenix qui adorabilmente grezzo) e i due figli. Ha perso la moglie in un incidente stradale e questo dolore soffoca silenziosamente una casa profondamente cambiata. Resta come segno del passato solo il contorno della polvere sulla parete in cui era appeso il crocifisso (che immagine!) e le buone maniere di Graham. Uomo comune, non più pastore, si muove nel modo ingessato di chi non sa quale sia il modo di fare. Incapace di fare del male, di arrabbiarsi, è bloccato anche nel limbo del lutto. Ha abbandonato il suo credo, guarda con curiosità i modi terra a terra del fratello; non riesce a imitarli.

Inconsapevolmente è ancora alla ricerca di una spiegazione per il suo dolore, anche se lo nega.Ha gli occhi aperti in attesa di un segno che dia una ragione a quello che è accaduto. In attesa di svegliarsi da un incubo, come nella sua introduzione nella storia: un incubo che finisce di soprassalto lo catapulta nell’inquadratura.

Così, quando gli capita sott’occhio il segno sbagliato, si riaccende in lui l’antica promessa religiosa. Quella che la vita abbia un senso, che tutto sia parte di un disegno. Seguendo la sua memoria muscolare, torna a crederci.

Che segni ci sono in Signs?

Questo non lo dicono i cerchi nel grano che gli capitano sotto casa. Quelli non sono mica segnali mandati da Dio. Sono prove concrete di un’invasione extraterrestre imminente. Una presenza non umana c’è sì, ma è un alieno che sta sondando il terreno per insediarsi. Graham che Merrill affrontano le circostanze nella maniera più umana possibile. Cioè comportandosi da idioti (quanto è bravo qui Shyamalan a non prendere sul serio i suoi personaggi). Mentre fanno questo, gli scorre in parallelo un altro film più personale e per nulla fantascientifico. Solo che non ce ne si accorge. E qui sta il grande equilibrio di questo splendido film. 

Questi due aspetti contraddittori, che si possono trovare per tutta la pellicola, sono rappresentati al meglio da una scena. Il primo contatto via radio. 

Signs Mel Gibson

Sconvolti dalle notizie sulle teorie di un’invasione extraterrestre, gli Hess, che hanno un cerchio nel grano sotto casa, vogliono pensare ad altro. Sperano siano solo fandonie della televisione. Suggestione collettiva (che poca fiducia per un ex uomo di fede). Vanno in città, si prendono del tempo per loro per calmare gli animi.

Incontrano però di sfuggita Ray, l’uomo che ha involontariamente ucciso la moglie di Graham. Ray non è interpretato a caso da M. Night Shyamalan stesso, che non ha grandi doti attoriali ma era necessario che fosse lui a vestire quei panni. Perché Ray è il regista di questa storia: ha innescato lui la situazione di partenza. Per colpa sua c’è il fantasma che perseguita la famiglia: la mancanza della mamma defunta. Ed è lui che inizia il processo di guarigione apparendo, rientrando nella loro quotidianità pur venendo inizialmente osservato dalla distanza (un procedimento pienamente cinematografico) e infine chiedendo accettazione. 

Tornati a casa in macchina, sono nel cortile. Morgan (Rory Culkin) il figlio maggiore, capta tramite un baby monitor che usa come walkie talkie un segnale insolito. Finiscono le chiacchiere a vuoto degli adulti, la macchina si ferma, e tutti si mettono in ascolto.

Alieni, madri lontane, e Dio: ognuno cerca qualcosa

Qui Shyamalan gioca con la simbologia della situazione e con quella della composizione dell’inquadratura. Il film crede che ci sia un senso nelle giornate, un percorso tracciato che porta a una conclusione ben precisa. Per intuirlo però, religiosamente, i personaggi devono fermarsi e ascoltare. Un segno, come da titolo, che potrebbe essere un avviso: “state attenti, ci sono gli alieni”. Invece è una scintilla di fede.

Se ad una prima visione sembra che la famiglia cerchi di captare il segnale per verificare o smentire le teorie sull’esistenza di una vita extraterrestre, riguardando la scena alla luce del finale si capisce che il significato è duplice.

Così la fotografia di Tak Fujimoto si compone prima orizzontalmente, con le linee regolari che tagliano a metà l’inquadratura. Poi, dopo i primi suoni, trova una verticalità spinta. La famiglia si passa l’oggetto. Per non perdere il segnale del dispositivo radio devono tenerlo saldamente puntato verso l’alto. Da una parte all’altra della macchina Graham e Merrill si danno la mano e si guardano negli occhi. Sono fermi, non possono muoversi né “lasciare andare”. Morgan sale sulla macchina, prende il dispositivo seguito dalla sorella Bo.

Signs Phoenix

Gli Hess formano così una lunga catena, forse nella vaga e irrazionale speranza di amplificare il segnale. Si trovano tutti uniti a puntare un’antenna al cielo, ascoltando il dialogo tra due voci. Senza capirne il significato.

Dalla terra al cielo, passando per le mani

Nella ricerca di una soluzione al vuoto che ha lasciato la morte, Signs racconta di questo. C’è un mostro da sconfiggere, come in tutte le fiabe. C’è la spiritualità strabordante di Shyamalan che colpisce anche i suoi personaggi. Alla fine però le immagini e i movimenti dei personaggi riescono a tenere ancorato il film ad una prospettiva molto fisica e concreta. 

Nel grande twist finale, tutto si risolve proprio come in una profezia realizzata. I segni raccolti lungo Signs sono la prefigurazione del modo in cui i quattro si salveranno. La prospettiva fantascientifica si chiude con la sconfitta degli extraterrestri incompatibili con l’acqua. Quella religiosa con la visione, quasi estatica, della donna che, morente, conosce per un istante tutta la linea del destino della famiglia. In un delirio pre morte gli dice cosa fare per filo e per segno. Come tutte le profezie però anche questa si capisce solo vivendo.

Signs Shyamalan

Ma Signs non finisce qui, non è solo questo. Così come la scena del primo contatto non ha solo due letture, ma ha una terza. Quella terrena. Così Shyamalan fa muovere gli attori costruendo dei precisi rapporti spaziali. Prima ognuno ha il proprio posto in macchina. Poi escono tutti, è il caos. Poi si saltano uno in testa all’altro. Infine tendono tutti verso l’alto. Si aggrappano a una speranza, non importa se sia razionale o meno.

È così che si passa il dolore secondo Shyamalan, ed è di questo che parla Signs. Qui sta l’emozione più complessa e coinvolgente, ma anche difficile da trovare, del film. C’è chi, come l’umanissimo Merrill ha bisogno di sconfiggere il suo uomo nero, l’alieno che abita con lui in casa. Graham dal canto suo incarna la scelta della fede, cioè l’accettare la morte trovandole una ragione nella vita. Infine ci sono i due bambini, che sono semplicemente senza mamma, e sentono una mancanza poco filosofica, molto concreta. Loro vanno avanti toccandosi con le mani, creando una catena il resto della famiglia. Sentendosi al sicuro tra i vivi. Tenendoli stretti, tenendoli vicini, mentre guardano altrove.

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