Le opere in realtà virtuale di Venice Immersive che abbiamo provato
Come ogni anno la sezione Venezia VR Immersive ha presentato diverse opere in concorso e fuori concorso e ne abbiamo provate alcune
Le opere in realtà virtuale di Venice Immersive che abbiamo provato
Articolo a cura di Bianca Ferrari e Gabriele NiolaAll’altezza del palazzo del cinema ma dall’altra parte del Lido, quindi non lato mare ma lato laguna, distante poche decine di metri dalla riva, raggiungibile con un minuto di un vaporetto dedicato, c’è l’sola della sezione VR Immersive di Venezia. Luogo che in sé sembra uscito da un’opera in VR, pieno di confini che non si possono superare perché intorno ha il mare, suggestivo e labirintico al suo interno.
La sezione è anche fisicamente parallela e separata ma ad un passo. Aperta lungo tutto il festival ha una sua giuria, un suo concorso, fuori concorso e sezioni. È cambiata molto da quando è partita, trovando sempre modi differenti di mostrare opere inedite in anteprima mondiale al pari di una selezione del meglio che sia stato prodotto nel corso dell’anno. È a tutti gli effetti uno degli eventi cruciali per capire lo stato dell’evoluzione della realtà virtuale, in ascesa e in continua trasformazione nei primi anni e da un paio invece in fase di stasi.La qualità del fotorealismo rimane quella, i dispositivi migliorano ma non drasticamente (l’ultimo salto sono gli Oculus cordless), mentre l’interazione e la ricerca di nuovi linguaggi latita. Lo stesso ogni anno tra le molte opere ne testiamo alcune, di tipo diverso e di argomento diverso, per capire o trovare qualcosa che annunci una frontiera differente dell’audiovisivo o delle arti visive in generale.
- Mandala – A Brief Moment In Time di Thomas Villepoux
- Tmání (Darkening) Di Ondřej Moravec
- Kingdom Of Plants With David Attenborough Di Iona Mcewan
- Space Explorers: The Iss Experience - Episode 3: Unite Di Félix Lajeunesse, Paul Raphaël
- Okawari Di Landia Egal, Amaury La Burthe
- Uncanny Alley di Rick Treweek
Mandala – A Brief Moment In Time di Thomas Villepoux
(Cina, Francia / 45’ – Installazione)
È l’opera più completa, intrigante e al tempo stesso narrativa che abbiamo provato. È un’installazione presentata in concorso da fare in massimo 6 e minimo 4 persone, nella quale esplorare sia camminando che saltando in avanti con i controller una montagna. È un percorso in salita abbastanza stretto e confinato, non si può girovagare più di tanto, lo stesso il punto è proprio esplorare e comprendere di doversi appropriare con le proprie mani di una mandala colorata. Ognuno può vedere gli altri nella forma di sagome, quasi fantasmi, e parlare con loro. I partecipanti collaborano a raccogliere i segni colorati e arrivati in cima entrano in un tempio dove una scimmia si anima e parla. È uno degli operatori dell’installazione, un essere umano che compie una performance e con il quale si interagisce. Il tempio è un mondo in cambiamento e l’avatar con il quale interagire è la scimmia di Il viaggio in Occidente (non è l’unico personaggio di quella storia tradizionale che comparirà). Nel complesso non è appassionante quel che succede e anche un po’ lunga l’esperienza (40 minuti) ma l’ingresso in un mondo altro, le trasformazioni e la possibilità di interazione creano una sensazione affidabile e penetrante di alterità. Si sta in un altro mondo davvero e nonostante quel che accada non sia devastante e le idee visive nemmeno, l’idea c’è.
Tmání (Darkening) Di Ondřej Moravec
(Repubblica Ceca, Germania / 25’– Installazione)
È un po’ convenzionale creare un mondo in distruzione, fatto di rottami e ricordi, per raccontare uno stato mentale. Tmànì (in concorso) però lo fa abbastanza bene, alternando scenari animati (e molto stilizzati) di nature selvagge, cervi cani ecc. ecc. a questi grandi palazzi in crollo, ognuno contenente ricordi, strutture e problemi della depressione. Non se ne esce con un’idea molto più chiara di come sia soffre di depressione (nonostante sia palesemente l’obiettivo) ma di certo se ne esce avendo esplorato da seduti (che peccato non poter camminare, bisogna accontentarsi di sporgersi, avvicinarsi e allontanarsi) e avendo anche blandamente interagito con una realtà accattivante perché falsa. Nulla è fotorealistico ma gli ambienti deformati dal ricordo sono un’esperienza. Funziona invece poco l’interazione con la voce umana. Dobbiamo parlare per attivare alcuni passaggi ma non solo questi si attivano con qualsiasi rumore (quindi non serve eseguire davvero gli ordini), anche quando si seguono i dettami questo non aggiunge granché. Molto meglio quando Tmànì racconta di una corsa di cavalli, vissuta con ripresa circolare che ci costringe a girare per seguire un cavallo che ad ogni giro è sempre più vicino fino ad essere immenso davanti a noi. Questo è quello che più di tutti riesce a fare la VR, un’esperienza che giochi con le dimensioni e crei qualcosa di molto falso con una totale credibilità.
Kingdom Of Plants With David Attenborough Di Iona Mcewan
(UK, USA / 15’ – 360 Video)
Nella sezione Best of Immersive c’è questa versione in VR 360 di un documentario di David Attenborough, è una serie di tre uno in fila all’altro. Come sempre la narrazione è avvincente anche se non è che venga usata moltissimo la possibilità di guardare tutto intorno. È interessante che a differenza delle immagini televisive si sia scelto un approccio macro. Tutte le piante di cui si parla sono guardate ad un’estrema vicinanza, così da vicino da sembrare giganti, come se noi fossimo minuscoli, ma la prospettiva è piatta e anche questa impressione, superato il primo impatto, non costruisce molto di più sulla base delle informazioni del documentario.
Space Explorers: The Iss Experience - Episode 3: Unite Di Félix Lajeunesse, Paul Raphaël
(Canada / 35’ – 360 Video)
Questo è un classico, l’esperienza in realtà virtuale da cartolina, quella che mostra a tutti posti del pianeta inaccessibili e consente di guardare senza muoversi ma girando e ammirando. Il punto di vista è quello, stabile, di volta in volta deciso dall’inquadratura (come al cinema) che piazza l’obiettivo 360 in un punto diverso della stazione spaziale ISS. Ne esce una bellissima rappresentazione della vita spaziale, tra spazi estremamente angusti (che raramente si evincono dalle riprese video), tecnologia ovunque e poi le fuoriuscite nello spazio, con la Terra di sfondo e tutto il resto dell’oscurità intorno a chi guarda. La particolarità è che non somiglia mai a Gravity e alle sue passeggiate vicino alla stazione orbitante, c’è proprio un altro feeling e un’altra gestione della luce. In aggiunta esiste nell’opera una forma di narrazione finalizzata a celebrare l’unità della ciurma a bordo, ma ciò che conta di più sono i punti in cui è piazzato l’obiettivo. Non sempre sono scelti bene e spesso sembrano più casuali che altro, quando tuttavia la prospettiva è centrata bene si ha davvero qualcosa che altrimenti non si è mai visto, o meglio mai percepito, un senso di precarietà da sala macchine di fronte allo spazio che (da dentro) è sempre un pericolo di morte e al tempo stesso (da fuori) un’oasi di pace e silenzio impossibili.
Okawari Di Landia Egal, Amaury La Burthe
(Francia, Canada / 45' - Installazione)
Si tratta di un'installazione totalmente incentrata sulla sostenibilità e realizzato seguendo obiettivi di eco-design. Okawari è un ristorante di cucina giapponese (fisico e virtuale) realizzato totalmente in materiali riciclati dove sono presenti quattro postazioni. La promessa di questa esperienza immersiva sarebbe (in teoria) l'interazione tra i partecipanti: una volta indossato il visore, invece, l'unica azione che si è spinti a fare è quella di ordinare piatti il più velocemente possibile per accumulare punti e l'unica azione che si può svolgere verso gli altri giocatori è quella di lanciargli cibo e posate... L'idea di Okawari è di spingere l'utente a consumare il più possibile salvo poi fargli rendere conto, in una seconda parte dell'esperienza, di tutte le implicazioni di un consumo sfrenato. Il concept sarebbe anche interessante, peccato che questa seconda parte sia una semplice spiegazione a voce da parte dei creatori (ci si è già tolti il visore) che passano in rassegna dati e cartelloni girando gli sfondi dell'installazione. Insomma una buona idea ma realizzata piuttosto male.
Uncanny Alley di Rick Treweek
(Sudafrica / 40' - 360 Video)
Per chi non ha assolutamente idea di cosa sia il Metaverso (o per chi non ci è mai entrato) Uncanny Alley è forse un punto d'accesso piuttosto complesso per cominciare ad esplorarlo. Guidato dal creatore stesso, l'utente (in contemporanea con altri) segue un tour virtuale attraverso Uncanny Alley, un luogo post-apocalittico in cui ognuno con il proprio avatar si mette alla prova con i comandi base e la fisicità di un'esperienza video 360 (guardarsi intorno, prendere oggetti, saltare) mentre Rick Treewek ti porta in giro per il Metaverso. La storia di Uncanny Alley (di cui però non si fa esperienza in questo contesto specifico) è quella di Gh0st, Glitch e altri Metazin nella loro esistenza. Gh0st è scomparso mentre lavorava ai sistemi per attraversare i mondi e l'utente, seguendo indizi, deve riuscire a trovarlo e ad abbattere la quarta parete del Metaverso. Per i non appassionati (o anche i non informati) tutto ciò è tanto affascinante quanto problematico: non c'è abbastanza tempo per capire veramente di cosa si tratti, cosa vogliano dire questi concetti nella pratica.