Qualche giorno fa, Brian K. Vaughan rilasciava una bella intervista a Vulture, in cui parlava diffusamente del suo successo internazionale intitolato Saga, della diversità etnica e culturale all’interno del mondo del fumetto americano e di una serie di argomenti che riguardano in genere l’ambiente dei comics. Ve la riassumiamo in questo articolo.

Dopo aver spiegato che la paternità ha cambiato profondamente i suoi orari di scrittura, trasformandolo da vampiro notturno ad autore dai ritmi lavorativi comuni e diurni, Vaughan ha chiarito una sua opinione espressa tramite Twitter qualche tempo fa in merito a un problema della contraddizione che regna nell’industria di fumetto: un giro d’affari miliardario costruito sul lavoro di molti autori sottopagati, a volte poveri, senza consapevolezza del proprio valore.

 

Brian K. VaughanTutto è partito da un mio ragionamento sulle variant cover, un aspetto importante che influenza pesantemente la nostra industria. Un sacco di fumetti escono con sei o sette copertine alternative diverse. A volte un proprietario di fumetteria deve ordinare almeno cento copie di quel fumetto per poter esporre e vendere un singolo albo con quella cover specifica.

Mi chiedevo, nella fattispecie, se l’artista firmatario di quella preziosissima copertina venisse pagato per il valore commerciale che ha. O se, invece, sia solo la casa editrice a beneficiare di quell’immagine.

Una delle cose che più mi causa frustrazione è sentire gli autori che sostengono che nel business dei comics non ci siano soldi e che sia un onore semplicemente poter lavorare nel nostro ambiente. Temo di non essere affatto d’accordo. I soldi ci sono eccome e alcune case editrici ne hanno fatti sempre di più negli ultimi anni.

Eppure sembra che i pagamenti siano rimasti sempre gli stessi, per la maggior parte degli artisti. A volte, sono scesi. Mi piacerebbe vedere la categoria lottare per quello che è giusto e non semplicemente accettare quello che gli viene dato.

I disegnatori subiscono un trattamento decisamente peggiore rispetto agli sceneggiatori, ma se volete conoscere le vittime peggiori dovete cercare tra i letteristi, probabilmente la categoria più criminalmente sottopagata.

Resta il fatto che chi si occupa delle matite fa un lavoro molto più duro di noi scrittori, fisicamente più complicato ed esigente in termini di tempo. Uno sceneggiatore può risolvere una pagina di fumetto in un’ora, mentre un disegnatore ci spende uno, due giorni della propria vita. E questa cosa viene data per scontata, io credo.

Specialmente perché chi scrive di fumetto è appunto uno scrittore, quindi per lui è più facile concentrarsi su quella componente del mestiere di narrare. Ma il nostro è un medium visivo, soprattutto. Gli artisti dovrebbero essere al centro dell’attenzione, ottenere il meglio dai diritti e dai guadagni. Ed è un caso raro.

 

Vaughan riconosce alle major americane di essere luoghi meravigliosi dove lavorare, ma sottolinea che i loro personaggi hanno più bisogno di autori ed artisti che non l’inverso. Sceneggiatori e disegnatori dovrebbero chiedere un aumento se pensano di meritarlo e ricordare che, nel caso, possono sempre creare i propri personaggi e le proprie storie. Senza garanzie, ma con la possibilità di cambiare la propria vita.

 

Se leggo i miei vecchi lavori? Mio dio, no. Ho sviluppato una certa distanza da quel che ho scritto in passato. Saltuariamente può capitare, ma in realtà mi interessa molto di più leggere fumetti scritti da qualcun altro. Quando mi rileggo, provo malinconia per il disegnatore con cui ho lavorato, magari, ma non faccio altro che vedere i miei errori.

E potrebbe capitare anche una cosa molto peggiore: magari, rileggendosi, ci si accorge di aver scritto qualcosa di veramente grandioso e potrebbe venirti il dubbio di aver raggiunto il tuo massimo dieci anni fa. Quello sì che è un incubo! Non viene niente di buono dalla lettura dei propri fumetti passati. Meglio fare come gli squali e continuare ad avanzare.

 

Vaughan sottolinea poi come molti dei suoi fumetti siano figli dei tempi in cui sono nati. Y: The Last Man ed Ex Machina, ad esempio, scritti attorno l’11 settembre 2001, strettamente connessi all’atmosfera che regnava a New York dopo la tragedia o al tentativo di dare un senso alle conseguenze, alla reazione del popolo americano e della sua politica a quegli eventi.

 

Saga T3, di Fiona Staples e Brian K. Vaughan, Urban comicsDacché ho iniziato a lavorare nei comics, uno dei miei motivi d’orgoglio è stato portare nuovi lettori, convertire persone che non li leggevano prima, come mi succede spesso con Saga. Mi ricordo lo stupore nel leggere il primo numero di Preacher, quand’ero al college. Lo adoravano donne, uomini, gente di tutte le estrazioni e di ogni formazione personale.

Era semplice, per nulla complicato, accessibile, divertente. La narrazione di Garth Ennis e Steve Dillon era così chiara che ti si incollava dentro. Con Saga ho sempre voluto raggiungere lo stesso risultato, catturare gente al di là della cerchia degli appassionati e crearne di nuovi, ancora inconsapevoli di esserlo.

Fin da subito la gente mi diceva di non essere fan dei fumetti, ma di apprezzare alcuni miei lavori, sin da Y: L’Ultimo Uomo. Un processo graduale. All’inizio vedevamo ragazzi che trascinavano le fidanzate alle fiere per incontrarci. Verso la fine della serie capitava l’opposto. Lì ho iniziato a notare il cambiamento del mercato e il cammino del nostro pubblico verso una maggior parità tra i sessi.

Con Saga, invece, è stato un effetto immediato e credo che il merito sia soprattutto di Fiona Staples. La nostra è una strana storia, con un sacco di cazzate bizzarre e non semplicissime da mandare giù, ma Fiona le rende accessibili e graziose. Un sacco di gente ci racconta di essere stata attratta soprattutto dalle copertine di Saga e di essere trascinata nella lettura. Poi, dalla prima pagina, Fiona ti cattura.

 

Una domanda in particolare ha trascinato Vaughan su questioni di stile, sul terreno dei suoi noti cliffhanger a chiudere gli albi delle sue storie. Forse stupirà alcuni la fonte d’ispirazione citata.

 

Probabilmente mi hanno influenzato le storie di Buffy l’Ammazzavampiri. Non solo ogni episodio aveva un gran finale, ma addirittura ogni stacco pubblicitario. E non erano specchietti per allodole, soluzioni facilone e scontate, ma momenti appassionanti.

Il fine è quello di creare degli istanti narrativi così forti da far soffermare il lettore per un po’ e fargli desiderare dell’altro. Si tratta di una cosa necessaria nel racconto seriale. Inoltre è un modo per sentire la responsabilità di dar un buon finale a ogni episodio. Perché il lettore dovrebbe continuare a pensare a quel che ha appena letto o desiderare di leggerne ancora, altrimenti?

 

Dopo aver chiarito che ci sono autori più giovani e affamati di lui a cui dare in mano i personaggi Marvel e DC Comics, luoghi in cui s’è trovato bene, ma per cui ora non lascerebbe il fumetto indipendente, Vaughan ha parlato di quel che il fumetto può fare oggigiorno in più rispetto al cinema o alla TV.

 

Si tratta sempre di soldi. Ogni medium è preso nel mezzo tra ispirazione artistica e necessità di vendere. Per gli studios, i ricavi sono sempre la prima cosa a cui pensare e l’ispirazione l’ultima. La spada di Damocle pende sempre sulla tua testa. Ma i comics sono un ambiente abbastanza piccolo da permetterti di mettere l’arte innanzi a tutto.

Non puoi non pensare alle vendite, ma puoi metterle al secondo posto. Puoi iniziare semplicemente chiedendoti quale sia l’idea più figa che hai. Inoltre non hai problemi di budget per i personaggi o per gli effetti speciali. Una cosa che mi lascia perplesso è il desiderio della gente di vedere i fumetti trasposti a video, come se fossero solo in attesa di essere glorificati dal cinema o dalla TV.

La gente si sta invece rendendo conto del fatto che negli ultimi vent’anni i comics sono stati un’incubatrice di pura creatività, il luogo in cui gli autori avevano la possibilità di raccontare qualunque genere di storia volessero senza doversi preoccupare del budget. La gente che parla di un’esplosione della bolla fumettistica è folle. Non accadrà mai, così come non si smetteranno di adattare romanzi.

La prima volta che sono arrivato a Los Angeles, un sacco di tempo fa, tutti gli stagisti erano dei nerd. Persino il tizio che ti portava l’acqua ci teneva a farti sapere di essere un vorace lettore di fumetti. Nei posti di comando, invece, facevi meeting con una serie di persone che non sapeva neppure cosa fossero.

Quegli stagisti, col tempo, sono diventati assistenti, sono in posizioni in cui possono dire la loro, forzare la mano ai loro capi. Poi sono cresciuti ulteriormente e ora hanno ruoli di dirigenza all’interno delle compagnie. Mancano pochi anni. Poi i geek avranno preso il controllo totale di quell’ambiente.

 

 

Fonte: Vulture