Vedo qui sulla tua scrivania delle tavole di “Betty & Veronica”, spin-off del reboot di “Archie”. Sei stato autore completo di questo progetto. 

Sì, mi hanno lasciato fare tutto. Non sono mai stato un prepotente, che fa grandi richieste, che voleva assolutamente raccontare come autore oltre che come disegnatore. Di solito attendo che il progetto giusto bussi alla mia porta, e questo è successo con Archie. Mi hanno chiesto cosa volessi fare per il rilancio di “Betty & Veronica”, e ho detto che mi sarebbe piaciuto occuparmi della storia da solo.

Credi possa diventare la tua nuova dimensione di fumettista?

No. Non ho mai sognato di fare l’autore. Questo progetto è capitato quasi per caso e mi sono divertito moltissimo, ma non penso possa diventare un impegno a tempo pieno. Mi vedo più come un disegnatore che ha la fortuna di lavorare con grandi autori. Mi trovo a volte ad avere qualche idea, e allora è bello poter evitare di dover discutere con qualcun altro su cosa mettere in una pagina. Non penso proprio di minacciare la carriera di nessuno se, a volte, scrivo qualche storia. Viviamo in un mercato enorme, e c’è spazio per tutti. Ho avuto la fortuna di avere un discreto successo con i miei progetti da autore completo e questo mi basta.

Ho una piccola idea per qualcosa di tutto mio, ma quel che sto facendo adesso, i progetti che mi impegnano in questo momento sono un cambio di rotta per me. Con “Betty & Veronica”, “Capitan America” e “Man of Steel” sto cercando di rimettermi in pista e di rifarmi una credibilità come artista di interni dopo che, per un sacco di tempo, mi hanno chiesto di fare solo copertine. Nessuno mi offriva più interni. C’è stato un lungo periodo in cui mi sono interrogato sulla mia identità di artista. Sono un fumettista che non disegna fumetti? O sono un illustratore che a volte fa fumetti? Ho deciso che dovevo tornare a disegnare interni e sto cercando di farlo notare al nostro ambiente.

Suona così strano, per me, sentir dire una cosa del genere proprio da te, che hai avuto un’influenza fortissima su altri disegnatori degli ultimi vent’anni. Penso a Terry Dodson, sui due piedi, ma non è l’unico nome possibile. Sei stato un punto di riferimento per molti artisti importanti, una sorta di caposcuola.

Sì, ma tutto ruota attorno alla tua percezione personale di te. Se non hai uno specchio, non sai che aspetto hai. Tutti gli altri lo sanno, perché ti vedono da fuori, da lontano. Credo che sia importante capire e decidere chi sei davvero, decidere per te.

Devo chiederti qualcosa su una delle mie serie preferite e uno dei miei autori preferiti: “Hellboy” e Mike Mignola. Credo che il tuo stile fosse perfetto per quell’universo narrativo, pur nella tua differenza rispetto allo stile di Mignola. Che ricordi hai del tuo lavoro con lui?

Sono un fan di “Hellboy” dal giorno uno e ho immensa stima per Mike. Lui mi chiese, a una convention, se volessi lavorare con lui. “Certo che sì!”, gli dissi. Lo chiamai sei mesi dopo perché non si faceva sentire, e lui era quasi stupito. Non pensava dicessi sul serio. Un sogno.

Non mi sono mai divertito tanto sul lavoro. L’unica cosa veramente complicata era proprio disegnare Hellboy. Lui e le sue corna. Quanto sporgono dalla testa? Sono in rilievo? Leggermente ricurve? Quanto grande deve essere la mano? Ecco… una cosa su cui Mignola mi fece lezione era il fatto che disegnavo le mani in modo sbagliato. Leggevo da vent’anni “Hellboy” e non avevo mai notato com’erano fatte davvero. Pazzesco.

Una delle cose più belle è stato riscoprire quanto fosse figo disegnare fumetti horror. Prima di “Justice League”, ci avevo lavorato parecchio, ma poi ho smesso fino alla mia collaborazione su “Hellboy”. Ed è davvero una cosa divertentissima. Posso creare personaggi spaventosi quanto voglio. Mi piacerebbe lavorare di nuovo con Mike Mignola, spero che non perda il mio numero di telefono.

Da un ragazzo infernale alle ragazze. Sei famoso per le tue belle donne, e non posso evitare di farti una domanda in merito. Come ti senti in questo nuovo mondo del Fumetto che ha cambiato radicalmente il modo di vedere l’immagine femminile, emancipandola moltissimo. Credi che, in qualche misura, rappresenti un limite per la tua creatività?

Assolutamente. Non mi era mai capitato, fino a qualche anno fa, di farmi domande sul mio lavoro in termini di buon gusto, mentre ora mi scopro a chiedermi in continuazione se quel che faccio rischi o meno di offendere qualcuno. E questo anche se mia moglie mi dice che va bene e le mie amiche donne mi rassicurano che è tutto ok. C’è sempre qualcuno, nel mondo oscuro e ramificato di Internet, che potrebbe prendere male il mio lavoro a livelli da Apocalisse. E questo ha un serissimo impatto sulla mia creatività, perché ora mi faccio domande sul pubblico. Non disegno più nulla di sexy come una volta, soprattutto di sexy in modo divertito, perché so di essere uno dei primi nomi sulla lista dei bersagli. Non credo che quel che faccio sia offensivo, ma ovviamente non sono una donna. So di non metterci malizia, ma so anche di non poter più rischiare, nemmeno se ho le migliori intenzioni possibili.

C’è un moralismo, o forse una morale diversa, nell’America di oggi, rispetto a quella di un tempo. Da piccolo, mi hanno insegnato in chiesa, alla domenica, che chi veniva dall’Alaska si chiamava Eschimese. Ma oggi è una parolaccia. Non sono più Eschimesi, ma nativi americani del nord, persone di etnia indigena. Ma quella parola io non la uso affatto con cattiveria, non la trovo per nulla offensiva. Tuttavia, la morale corrente, mi impedisce di usarla. Me la insegnarono a scuola, in chiesa. Bene, le cose cambiano. Ciò che era comune e accettato, ora è offensivo. Ma non c’è un manuale, non c’è una newsletter che ti informa su cosa sia diventato proibito o sbagliato, da normale che era. E questo ti mette in situazioni spiacevoli.

Ogni giorno, quando disegno, ho un po’ paura di scoprire di essere un criminale, di scoprire che ciò che ho sempre fatto sia ora qualcosa di inaccettabile. E non voglio assolutamente essere il cattivo della storia. Cosa che mi limita moltissimo. Il problema è che le persone sono abituate, soprattutto quando hanno in mano il loro piccolo black mirror, il loro telefono, a manifestare rabbia immediata, che causa la rabbia anche degli altri. Nessuno più pensa al contesto in cui viene usata una parola o in cui un’immagine è calata. Si ragiona per assoluti e tutti siamo potenziali vittime del processo alle intenzioni.

Attenzione: io sono felicissimo del fatto che la voce delle donne sia così forte nel Fumetto di oggi, del fatto che non ci siano più solo fumettisti bianchi e maschi, che il corpo della donna non sia più soltanto un oggetto da guardare e per forza sexy, nei nostri disegni. Ma il pendolo, da dove era negli anni Novanta, è oscillato nella direzione completamente opposta. E quando si raggiunge l’opposto totale di una posizione scorretta, spesso si finisce in un altro stereotipo, in un’altra forma di assoluto, di incomprensione e di pregiudizio. Da un estremismo a un altro, quando il buono sta nel mezzo. Ma ci vuole tempo per fare in modo che il pendolo torni in una posizione mediana, in cui non si ragioni solo per toni di bianco e nero. Nel frattempo, io cerco di tenermi fuori dal fuoco incrociato.

 

DC Women di Adam Hughes