Nel corso della più recente edizione del Comicon abbiamo avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con Danijel Žeželj, celebre artista che ha recentemente illustrato la maxi-serie Days of Hate, pubblicata negli Stati Uniti da Image Comics e in Italia da Eris Edizioni.

Con il fumettista croato abbiamo parlato di questo progetto scritto dall’estroso sceneggiatore Ales Kot (Secret Avengers, Iron Patriot) e colorato da Jordie Bellaire, di come l’Arte possa essere uno specchio della crisi nella società americana e del suo lavoro come autore completo per Cappuccetto Rosso Redux (sempre edito da Eris), oltre a ottenere qualche piccola anticipazione sui suoi prossimi progetti.

 

Ciao, Danijel! Benvenuto su BadComics.it!
Com’è nata la collaborazione con Ales Kot per la realizzazione di “Days of Hate”?

Days of Hate: Atto primo, copertina di Danijel Žeželj

È nata da uno scambio di e-mail. Anni fa lessi una sua sceneggiatura, me la inviò quando ancora non aveva pubblicato nulla negli Stati Uniti. In quel momento, però, non avevo modo di lavorarci. Successivamente ho letto i suoi lavori e abbiamo riprovato a fare qualcosa insieme. Ci siamo scambiati diverse mail, parlando di varie possibilità e temi da sviluppare. Alla fine, la decisione è stata quella di raccontare qualcosa legato al contemporaneo e all’attuale situazione negli Stati Uniti. Mi riferisco al momento in cui Trump era appena diventato Presidente, per capirci. Improvvisamente, erano diventati visibili tutti i cambiamenti che abbiamo raccontato nel volume.

Ho vissuto negli Stati Uniti per sedici anni, e anche Ales è stato lì per un po’, ma non quanto me perché è più giovane. Spesso chi arriva dall’Europa riesce ad avere una visione molto differente di questo “nuovo mondo”, della realtà degli Stati Uniti e di ciò che accade lì. Quel che è successo dopo le elezioni è sembrato sorprendente, ma dal momento in cui Trump è salito al potere si è capito che certe tendenze c’erano già e che serpeggiavano sottopelle, più o meno palesemente, come fossero delle realtà parallele.

Quello che sta accadendo ora ha avuto inizio anni fa, ed è storicamente parte del tessuto della nazione. Penso che la mia sia una visione simile a quella di Ales, e “Days of Hate” è una riflessione su quella realtà filtrata della nostra esperienza negli Stati Uniti.

Su cosa ti sei basato per la caratterizzazione del contesto in cui avviene la storia?

Days of Hate: Atto primo, anteprima 01

Tutto è collegato alla mia visione degli Stati Uniti. Penso che molte persone percepiscano questa realtà allo stesso modo. Negli Stati Uniti sei meno protetto e più esposto rispetto a molte altre società europee o a nazioni più povere e meno sviluppate. Socialmente parlando, sei più esposto e poco protetto: il sistema sanitario, quello di previdenza sociale e cose simili, le scuole… Il che mette in dubbio la loro stessa civilizzazione. Penso sia un posto oscuro.

Allo stesso tempo, negli Stati Uniti c’è un continuo rinnovo dell’energia sociale, grazie alle persone che costantemente arrivano e se ne vanno. Si parla sempre di un nuovo inizio e di grandi possibilità per tutti, giusto? Quell’illusione è ciò che ti tiene in piedi, positivo e ottimista. In America c’è questa idea di guardare sempre al lato positivo, anche se, in realtà, non ne hai mai motivo. Però, l’illusione è una forza reale, concreta, un sguardo positivo sulla vita, ed è sicuramente molto più sano rispetto a uno sguardo negativo. Le azioni positive partono dalle idee positive, e quell’energia, alla fine, rappresenterà l’unica possibilità di ottenere un cambiamento reale.

Immagino si possa fare un discorso simile anche per i personaggi coinvolti nella storia.

I protagonisti erano più o meno stati decisi da Ales, mentre al loro aspetto ci abbiamo lavorato insieme. Ho realizzato molti bozzetti, finché non abbiamo trovato l’aspetto giusto per i personaggi principali. Non riesco lavorare su sceneggiature troppo dettagliate, meno descrizioni e dettagli ci sono e meglio è. Penso che a volte Ales abbia cambiato i dialoghi dopo aver visto le mie tavole, quindi c’è questa grande correlazione tra disegno e testo.

Com’è andata la lavorazione delle tavole con la colorista del volume, Jordie Bellaire?

Ho lavorato con lei come lavoro con tutti i coloristi: lascio loro tutto lo spazio possibile, dando solo un indicazione generale. All’inizio si è soffermata molto sulla scelta della palette di colori, perché c’è parecchio nero nei miei disegni. Ho capito che ha cercato subito l’approccio ideale per lavorare con me, e il risultato è ottimo! Non penso sia facile colorare le mie tavole: magari con uno stile di disegno lineare c’è molto spazio per il colore, mentre nel caso ci sono davvero parecchie ombre. Da parte mia ci sono state solo delle indicazioni basilari, e lei ha fatto il resto.

“Days of Hate” è una storia che riflette la crisi della società attuale. Avete avuto ritorsioni?

Non credo ci siano stati problemi. Ales non mi ha mai riferito nulla del genere. Non penso che la gente veda in questo lavoro qualcosa che possa davvero cambiare le cose. Non credono che i fumetti possano attaccare l’establishment, mettiamola così. Ma attaccarlo non è l’importante, l’importante è ispirare un modo creativo e positivo di pensare, innescare idee che stimoleranno i lettori ad aprire le loro porte e le loro finestre. È qualcosa in cui credo. Credo fortemente nel lettore, il lettore o il destinatario è altrettanto importante: creativo quanto lo è l’autore, lo scrittore. L’artista.

Cosa ne pensi dell’edizione italiana del volume pubblicata da Eris?

Il formato è un poco più piccolo rispetto all’originale americano, ma credo che la qualità di stampa sia migliore, davvero ben curata. Non c’è da meravigliarsi, perché di solito quando si realizzano i volumi che raccolgono gli episodi pubblicati precedentemente come spillati c’è sempre maggiore attenzione.

Tra i prodotti da te firmati e pubblicati da Eris c’è anche “Cappuccetto Rosso Redux”. Cosa puoi dirci a riguardo?

Cappuccetto Rosso Redux, copertina di Danijel Zezelj

Volevo riscrivere uno dei miti occidentali, uno di quei racconti che possono essere interpretati attraverso diverse chiavi di lettura. Quella di Cappuccetto Rosso è una storia che conosciamo tutti, ma per me c’è sempre stato qualcosa che mancava in quella favola. Ho sempre creduto che ci fosse qualcosa di guasto nel bel mezzo della storia.

Per esempio, ci sono le connotazioni legate al sesso, la simbologia della bambina che diventa donna. Quella è interessante. Ma per me era ancor di più importante il forte scontro tra maschile e femminile, con il lupo che vuole la sua preda, rappresentando una forza della natura, e il cacciatore che alla fine salva Cappuccetto Rosso: due forze maschili contrapposte ma che in fondo sono due aspetti di un’unica forza. Mentre invece le forze femminili appaiono deboli, come se avessero una colpa da espiare, come fossero destinate a perdere.

Tutto ciò è molto legato alla tradizione, tramandata per secoli, relativa alle differenze tra uomini e donne. Ho giocato un po’ su questi archetipi e ho inserito una forza creativa femminile contro quella distruttiva maschile. A livello simbolico, quella femminile è sempre una forza positiva, la conferma della vita e della libertà, mentre quella maschile porta alla dominazione, alla violenza e alla distruzione. Tutta la vicenda si ripete, è ciclica: si apre e si chiude ricominciando. Un’idea per me molto importante.

Anche in questo caso le tavole sono piene di toni cupi: prima sono chiare  ma poi diventano sempre più scure.

L’estetica della storia segue ovviamente la linea narrativa. Puntando dritta verso una fine che sarà, magari, un nuovo inizio. L’uso del bianco e nero è sempre alla base del mio disegno, perché è il rapporto tra loro che – come nella vita – dà forma al tutto.

Puoi parlarci dei tuoi prossimi progetti?

Sto ultimando una nuova graphic novel composta da una serie di brevi episodi. Per ora, il titolo è “Frammenti di Vincent”. Sarà una storia muta, e ho scelto Van Gogh come soggetto perché al contrario di me lavorava interamente con il colore. In più, mi interessa tantissimo come persona. È un’idea che ho dentro da tempo, che mi affascina praticamente da sempre.

Van Gogh ci ha lasciato una documentazione enorme, le sue lettere. Scriveva davvero tantissimo. Quando non era malato, anche cinque o sei lettere al giorno. Un archivio enorme che ti fa entrare nel suo mondo, come persona e come artista. Ha iniziato a dipingere tardi, e tardissimo è arrivato il momento in cui gli è stato riconosciuto un alto livello di qualità artistica. Per lui non era facile dipingere, ha sempre fatto tutto a modo suo. Se si osservano i suoi primi disegni, si capisce subito perché non lo abbiano accettato in nessuna accademia, sembrava praticamente senza talento. Non c’era bravura, bensì desiderio di esprimersi: una sofferenza legata alla sua visione del mondo. Voleva mostrare quello che sentiva. Oltre che con la pittura, ci ha provato in altri modi, anche cercando la via del sacerdozio.

Inoltre, ho in lavorazione un fumetto legato a un nuovo videogioco, di cui non posso dire nulla.

 

Danijel Zezelj, Mirko Tommasino