La Guerra Dei Cafoni, la recensione
Con una riduzione ai minimi termini dei conflitti sociali degli anni '70 La Guerra Dei Cafoni trova nella Puglia il territorio per la propria mitologia
A smuovere le acque arriva una figura intermedia, un cugino del capo dei cafoni, figlio di un meccanico. Provenienza cafona ma reddito più alto, un mestiere in mano, qualche conoscenza in più, soldi da spendere, ambizioni di scalata sociale, voglia di rompere le regole e mescolare le acque. È in piccolo (in tutti i sensi) quel che accadeva più o meno in quegli anni, il crollo di certe gerarchie e il mutamento sociale. Ma non è questa la parte migliore, questa è semmai quella più didascalica che ricorda allo spettatore quel che già sa. La parte forte del film di Davide Barletti e Lorenzo Conte (documentaristi con già un film di finzione alle spalle, Fine Pena Mai) è la maniera in cui riescano a creare un ambiente irreale in cui muovere la metafora degli eventi veri.
In La Guerra Dei Cafoni l’assenza di qualsiasi adulto fa il paio con luoghi che sembrano abbandonati da anni, lande non costruite, case solitarie, baracche, rovine. Lì dentro i bambini si muovono con diverse capacità. Il cast è ampio e non tutti sono al medesimo livello, ma nei momenti più efficaci La Guerra Dei Cafoni mette in scena la preadolescenza per quello che è: una rabbia ingenua di grandissimo effetto, desideri allo stato brado, violenza e sentimento gestiti male.Senza una connotazione temporale poteva essere pura distopia, con un po’ più di concretezza nella storia e meno vaghezza nei riferimenti poteva essere Il Signore Delle Mosche. Peccato quindi che, specie nel finale, il film sembri un po’ spaventato dall’idea di vincere e non trovi mai la chiusa perfetta, preferendo lasciare tutto sul vago, trovata che ha senso per la storia raccontata e le ambizioni di racconto sociale ma meno per quanto di buono l’intreccio aveva imbastito.