Il Labirinto del Silenzio, la recensione
La Germania inizia la seconda fase dell'elaborazione del nazismo al cinema con Il labirinto del silenzio. Quella in cui i figli condannano i padri
Il film di Giulio Ricciarelli prova a guardare retrospettivamente l’olocausto e desumere le cause dalle conseguenze. L’operazione sarebbe raffinatissima ma il risultato lo è molto meno, procede con una certa meccanicità, una svolta dopo l’altra, senza il gusto dell’indagine nè l’indignazione della scoperta. Non è cinema di ampio spettro sociale, nè vero film di genere. Alla fine quindi sono la soddisfazione della scoperta o la frustrazione del complotto a mancare da questa la storia di un avvocato che, indagando su dove si nascondano i criminali nazisti nella Germania del dopoguerra, scopre che esiste un sistema molto radicato di protezione, che il nazismo potrà essere finito ma gli uomini sono gli stessi di prima e continuano a proteggersi a vicenda.
L’unico obiettivo che pare premere davvero al film è l’assoluzione di un’ampia fascia di tedeschi. La caccia agli uomini responsabili delle massime atrocità è infatti finalizzata, già all’interno della storia, a far sì che nessuno dimentichi cosa è accaduto e che quanti non sanno o non credono non sia vero vengano a sapere. Dopo la grande elaborazione cinematografica del periodo nazista che abbiamo visto negli ultimi anni, qui la Germania si tira fuori dall’equazione, cominciando a discernere buoni da cattivi, cominciando a mostrare al fianco dei nazisti coloro che vogliono combatterli già all’interno del sistema e soprattutto coloro che non sanno. Un popolo che prende coscienza di cosa gli è successo dopo che questo è successo, la generazione dei figli dei nazisti che cerca di riequilibrare le cose e condannare i propri padri senza condannare anche se stessi.