Se questo è amore, la recensione
La storia di Se questo è amore prende l'Olocausto e gli dona tutta un'altra dimensione che parte dalla realtà ma ha echi mitologici
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Se già la storia è potente Se questo è amore per parlare d'Olocausto ha la trovata clamorosa di partire da un’immagine, una fotografia fuori da ogni canone. È una foto di Helena, in pigiama a righe nel campo di concentramento, molto sorridente e radiosa, libera e ben pasciuta. È qualcosa che non abbiamo mai visto, è una foto di un uomo innamorato ad una donna innamorata in mezzo al trionfo della morte e del sopruso. Come fosse possibile sorridere ed essere così felici lì, in quel momento, è la materia del documentario, assieme alle sue conseguenze.
Anche il modo in cui Se questo è amore affronta questa storia d'Olocausto appare come il più giusto: tramite le interviste in gran parte d’archivio (la fondazione Shoah di Spielberg ha messo a disposizione il suo sconfinato materiale e ci sono anche i diretti interessati) e in minima parte fatte oggi.I contorni della storia infatti hanno del mitologico e la lontananza nel tempo (e nei ricordi) dei coinvolti non fa che accrescerla. L’israeliana Maya Sarfaty, che il documentario lo ha ideato e diretto, ha capito perfettamente questa componente sfumata e di pura tradizione orale. Invece che cercare insistentemente il realismo e la ricostruzione esatta lavora di suggestione, accompagnando il racconto con grande intelligenza tramite una serie di diorami (miniature di carta). Tutto parte da una foto e continua su foto e supporti di carta, animazioni elementari e idealizzazioni.
In questo mondo quando la storia esce dai campi di concentramento e si sposta, decenni dopo, nelle aule di tribunale in cui a Helena sarà chiesto di salvare Wunsch, caschiamo con il sedere per terra sulla superficie della realtà, del cinismo umano e della complessità dei rapporti non solo tra i due coinvolti, ma soprattutto tra Helena e il resto delle donne che erano state nei campi con lei ed ebree in generale.