Vacanze ai Caraibi, la recensione
Modellato su uno stampino fieramente vecchio e duro, Vacanze ai Caraibi non migliora la fattura ma rinsalda un posizionamento cinico e per nulla conciliante
Vacanze ai Caraibi rimette insieme la vecchia squadra che dal 2000 circa di anno in anno faceva segnare l’incasso più alto della stagione: Neri Parenti alla regia, Christian De Sica e Massimo Ghini a recitare, Brizzi e Martani a scrivere. Manca solo Boldi che ormai pare aver definitivamente scelto la carriera solista. Soprattutto questo nuovo vecchio film di Natale torna ad una versione più dura e rigorosa di quel tipo di comicità cattiva che si oppone ai propri personaggi. Più che mai quindi, al netto della consueta fattura rapida e senza cura, della totale insipienza narrativa e sciatteria visiva, sembra che il cinepanettone sia qui per affermare qualcosa. In crisi di risultati e visibilità da diverso tempo e costretto a spostarsi di produzione (non più Filmauro ma Wildside) per sopravvivere, ora vuole gridare con forza la propria appartenenza, non scusarsi per nulla nè attenuare volgarità e bassezze ma essere fieramente scorretto. Per la prima volta il cinepanettone suona come una nicchia che vuole essere diversa da tutto il resto, meno quieta. Che è paradossale per un tipo di film solitamente campione d’incassi.
È evidente che quest’idea (più teorica che pratica) di scorrettezza e cattiveria non può che essere sponsorizzabile e, specie nel segmento De Sica-Ghini, trova effettivamente un ritorno delle antiche meschinità e gag sessuali ma anche ad un certo dinamismo con il primo intento a truffare tutto e tutti in un perpetuo intreccio che sembra potersi non sciogliere mai. I protagonisti subiscono senza sosta continue punizioni che non fanno che metterne in mostra i lati peggiori, in un rilancio esasperato che ne massacra qualsiasi positività. Cattivi, cinici, avidi e pronti a tutto, anche a truffare la figlia per denaro, i due falsi ricchi passeranno indenni attraverso doppi sensi e penetrazioni d’ogni tipo per trionfare immeritatamente.Non ci sono dubbi che l’idea comica è sempre più ridicola (se mai non lo sia stata) oltre che mal eseguita con una teatralità sempre più pronunciata e fuori luogo e che come il film esce dal seminato del cinismo (le parti di Argentero e Ilaria Spada o quella scritta malissimo di Dario Bandiera) entra nella noia. Eppure in questa rivendicazione di un atteggiamento volgare e sprezzante, di questa cattiveria contro i personaggi che non si cura della morale, che non vuole farsi ammaestrare nè intende moderare il linguaggio o i riferimenti sessuali c’è qualcosa di liberatorio, non nella fattura ma nella proposta. Sarebbe falso non riconoscerlo per quanto rimanga intollerabile la maniera in cui tutto è messo in scena, senza nessuna decenza per il grado minimo di sofisticazione e sospensione dell’incredulità.