Venezia 72 - Tharlo, la recensione
Presentato nella sezione Orizzonti, il tibetano Tharlo narra prolissamente le alterne vicende di un ingenuo pastore
Tharlo è la storia di un progressivo allontanamento da sé fino a non riconoscersi più, in una spirale di rovina che mescola riferimenti biblici, cultura popolare e fascinazione per un Occidente che attrae ma respinge chi vi si accosta, personificato dell'occidentalizzata parrucchiera che seduce gradualmente l'occhio e il cuore del candido pastore. La carta d'identità è il lasciapassare per la società degli uomini, quella società da cui Tharlo si è sempre tenuto a debita distanza, tra un capretto da allattare e un lupo da allontanare, con la sua treccia infantile e così caratteristica. Il semplice ma efficace paradosso di fronte al quale si trova il povero pastore è quindi emblematica epigrafe dell'intero film: sceso in città per ottenere un documento d'identità col quale farsi "riconoscere", l'ingenuo Tharlo si lascia manipolare fino ad assumere sembianze e carattere di un uomo lontano anni luce da sé, il cui posto nel mondo non è più quello di un tempo, pezzo in passato perfettamente incastrato nel grande puzzle dell'esistenza, ora anonimo e ammaccato senza una causa da servire.
Lo sviluppo narrativo di Tharlo è semplice e lineare, spalmato su due ore che, sinceramente, sono troppe per la storia che il film si prefigge di raccontare. Il ritmo dilatato delle seppur belle sequenze a camera fissa mettono a dura prova lo spettatore, in linea con una fin troppo rodata tendenza dei prodotti "da festival". Ma inutile pretendere sintesi da un film che si apre con la declamazione integrale del discorso al popolo fatto da Mao nel 1949; come a dire: "Uomo avvisato, mezzo salvato."