God has a plan for you Gaius. He has a plan for everything and everyone.

In un luogo imprecisato dello spazio e del tempo, ma che ha le coordinate televisive dell’8 dicembre 2003, un’umanità sull’orlo dell’estinzione inizia una lotta serrata per evitare l’annientamento. In questo viaggio per la sopravvivenza la accoglie il freddo abbraccio del vuoto spaziale, il miraggio di una Terra Promessa alla quale ritornare, il desiderio di determinare se stessa, come specie e come individuo, al di là dei piani di chi si colloca, per vari motivi, sopra o sotto di essa. Nel lungo esodo narrato in Battlestar Galactica il divino e l’umano si incontrano e si fondono in un gioco di allegorie e simboli, sullo sfondo di una guerra nella quale ogni istante può essere decisivo e in cui anche l’ultimo uomo può avere un ruolo determinante. Questo è il racconto di un capolavoro della televisione.

Nothing but the rain.

Pioggia, morte e silenzio. Questo è quello che appare dall’abitacolo del Viper pilotato dal tenente Kara Thrace (Katee Sackhoff), soprannominata Starbuck (Scorpion nella versione italiana), mentre infuria nello spazio la battaglia con i Cyloni. Dopo 40 anni di silenzio, questa razza di robot senzienti ritorna dalle profondità del cosmo per sterminare l’umanità che li aveva generati decenni prima. Per le dodici colonie che si originarono dal pianeta Kobol e che compongono la repubblica federale, colpite a sorpresa, private del loro sistema di difesa, non c’è scampo. La Galactica, forse l’unica nave stellare da guerra sopravvissuta al massacro, guidata dal comandante William Adama (Edward James Olmos), riesce a fuggire riunendo intorno a sé alcune navi civili di sopravvissuti, appena poche decine di migliaia, tutto ciò che rimane dell’umanità. In un clima surreale presta giuramento come Presidente delle colonie il Ministro Laura Roslin, addirittura quarantatreesima di una linea di comando completamente spazzata via. L’ultima speranza per l’umanità è il ritorno alla quasi leggendaria tredicesima colonia, un pianeta a lungo dimenticato chiamato Terra.

Questo in poche parole quanto veniva narrato nella miniserie in due puntate che apriva la strada come backdoor pilot alle quattro stagioni di Battlestar Galactica, remake dell’omonima serie del 1978. Il punto di partenza è uguale, così come alcuni riferimenti religiosi, ma ciò che immediatamente colpisce della serie trasmessa da Syfy e creata da Ronald D. Moore è la volontà di non riproporre uno sterile rifacimento di uno show del passato, ma di costruire una nuova mitologia che sia coerente con il tema centrale dell’opera. Quindi l’immensità dell’universo come riflesso dell’abisso umano, il cosmo che – come spesso il cinema e la letteratura ci hanno mostrato – diventa il non-luogo per eccellenza dove sovrapporre l’universale e il particolare, dove il divino, così indecifrabile, diventa più vicino proprio perché lo spazio (infinito, inconoscibile, terrificante) lo è.

You cannot play God then wash your hands of the things that you’ve created. Sooner or later, the day comes when you can’t hide from the things that you’ve done anymore.

Allegorie, citazioni, riferimenti si sprecano, e sono la chiave di lettura indispensabile per comprendere la serie nella sua interezza, al di là del semplice intrattenimento. Su una base sempre concreta e che respira episodio dopo episodio la sua urgenza narrativa (basti pensare che la opening ogni volta ci ricorderà il numero aggiornato degli umani rimasti), Battlestar Galactica infatti impone costanti riferimenti biblici o legati a tematiche religiose. Dalla “Pearl Harbor” iniziale al giuramento della Roslin ricalcato su quello di Lyndon Johnson dopo l’uccisione di Kennedy (e c’è chi ha visto nell’intera vicenda una metafora della “guerra al terrore” dopo l’attacco alle Torri Gemelle), la tentazione di cedere ad una lettura storica della vicenda cade nel momento in cui entriamo nel vivo della serie. La Galactica affronta un viaggio, metaforico e non solo, di rinascita e rigenerazione dell’umanità. Quindi le Dodici Colonie, che hanno i nomi dei segni zodiacali, come le dodici tribù d’Israele, e naturalmente anche come i dodici apostoli, ma non solo. Perché dodici sono anche i nomi degli dei principali della mitologia greca (dodekatheon), che hanno grande importanza per l’umanità di Battlestar Galactica, che si rifà al pantheon greco-romano (curiosamente i monoteisti sono proprio i Cyloni). Queste due componenti, una mitologica, l’altra religiosa, finiscono per fondersi idealmente, ma non per caso, nel nome completo del comandante Lee “Apollo” Adama, figlio di William.

È poi centrale nell’evoluzione della vicenda l’apocalisse personale di Gaius Baltar (James Callis), il primo responsabile umano dell’invasione subita dai Cyloni, vittima del social engineering, colpevole di aver rivelato, pur senza conoscere gli esiti delle sue azioni, i codici per disinnescare i meccanismi di difesa delle colonie. Il percorso umano di questo personaggio è il più intenso e significativo. Come è logico ognuno dei protagonisti, dagli Adama a Kara a Laura Roslin, affronterà un cammino di cambiamento nell’arco delle stagioni, ma nessuno soffrirà più di Gaius. Da traditore a fuggiasco, dall’ultimo gradino dell’umanità rimasta a quello più alto, e poi di nuovo nella polvere per un riscatto che forse sente di non meritare più. La metafora cristologica qui è fortissima e evidente, soprattutto nel corso di un certo processo subito da Gaius nel quale l’uomo che lo difende contesterà apertamente il fatto che sia diventato il capro espiatorio dell’umanità, quello al quale addossare tutte le colpe per purificarsi.

We’re the children of humanity. That makes them our parents, in a sense.

Perché l’umanità è davvero colpevole. È colpevole perché, in un gioco di ribaltamenti che diventa palese fin dalla prima scritta che appare nel prologo di ogni episodio: “The Cylons were created by men”. L’umanità immortale che diventa il creatore, che sottomette la propria creatura, che ne paga il prezzo con la propria rovina. Un percorso che il cinema, l’arte, ma tutta la storia in generale ci raccontano da secoli. Battlestar Galactica, ben lontano dal presentare una semplice distinzione tra buoni e cattivi, è anche la storia tragica dei Cyloni, che qui appaiono più umani degli umani, che dietro un percorso di vendetta e rabbia nascondono invece profonde insicurezze, un desiderio d’amore, quasi la volontà di accarezzare l’idea della morte (sono in grado di rigenerarsi) per diventare più simili agli umani che cercano di distruggere.

Da freddi robot umanoidi a esatte copie in grado di confondersi e gettare il panico tra i nemici attraverso tradimenti e giochi di potere. Proprio in questo modo Number Six (Tricia Helfer), il Cylon più importante della serie, riuscirà a fare breccia nel cuore di Gaius Baltar, con cui stringerà un rapporto morboso e difficile da intepretare. E, tanto per tornare al numero dodici e ai simbolismi di prima, questo è anche il numero dei modelli umani sviluppati dai Cyloni. Uno dei grandi misteri della serie verterà proprio sulla scoperta di ognuno di questi (Seven are known, four live in secret, one will be revealed è il tormentone dell’ultima stagione) e, proprio attraverso di questi, il grande tema dell’identità verrà portato ai livelli più alti. Perché alla fine, al di là dell’avventura spaziale, delle grandi tematiche universali e degli slanci metafisici, Battlestar Galactica precipita in se stesso e ci racconta le varie sfaccettature del cammino personale di ognuno oltre ciò che il caso, la natura, il destino o Dio stesso ci hanno costretto ad essere. L’universo ha i suoi piani, ma l’ultima scelta spetta all’uomo, o al robot in forma umana.

E in tutto questo anche considerazioni sulla natura del potere, sul senso di responsabilità individuale e collettivo, sul costante oscillare tra democrazia e autoritarismo. Cinquantamila persone circa bloccate in una situazione disperata: una dittatura militare sembrerebbe l’esito più logico, ma la serie ne approfitta per approfondire anche problematiche legate alla legittimità del potere e all’utilizzo di questo. La scrittura non fornisce risposte semplici, ma si limita a porre i vari sgradevoli estremi delle situazioni, tanto della democrazia quanto dell’autorità ristretta. In una situazione di allerta e pericolosità, è giusto limitare la volontà della massa, che spesso non riesce a comprendere cosa è meglio e potrebbe farsi trascinare dagli istinti? E, viceversa, è sbagliato concentrare le decisioni nelle mani di pochi, presunti saggi?

Frak!

Ma ovviamente la serie non è soltanto tormenti filosofici e simboli metafisici. C’è una vera guerra spaziale in mezzo! Le scene d’azione, i momenti di tensione e di pura avventura abbondano, e il carico narrativo non scende mai sotto la soglia di attenzione. Mentre la trama orizzontale procede spedita, la regia e il montaggio fanno buon uso delle possibilità economiche del network, giocando su uno stile tutto zoomate e scatti velocissimi, che in più di un momento sfiora quasi il falso documentario. Si combinano al resto le coreografie spettacolari dei Viper umani e dei Raider cyloni, che si muoveranno ruotando sui tre assi nel corso delle battaglie spaziali. Il lavoro sulle interpretazioni non è da meno. Se James Callis ha dato forza e vigore ad un personaggio tormentato e che affronta più “fasi” nel corso delle stagioni, grande riconoscimento va dato a Edward James Olmos e Mary McDonnell e ai due personaggi granitici e sofferenti del comandante Adama e della Roslin. Indimenticabile poi il personaggio di Katee Sackhoff, ma anche altri finora non citati come quello di “Chief” (Aaron Douglas), di Saul Tigh (Michael Hogan), di Boomer (Grace Park), di Dualla (Kandyse McClure).

Difetti? Certamente. Come tutte le serie che hanno puntato, tra le altre cose, gran parte del loro fascino sui misteri e sulle questioni irrisolte, il finale potrebbe far storcere il naso a qualcuno. Alcune grandi rivelazioni, o presunte tali, si risolvono in una bolla di sapone, con più perplessità che altro, e non tutti i passaggi della storia a qui abbiamo assistito andranno al loro posto dopo aver avuto il quadro completo. Una mano quasi sovrannaturale metterà una pezza da qualche parte, e per il resto toccherà accontentarsi. Pazienza, Battlestar Galactica rimane un pezzo di storia della televisione, un’avventura straordinaria fatta di personaggi veri, tematiche affrontate con intelligenza e riferimenti colti.

So say we all.