Più che al fiume attraversato da Cesare con il suo esercito, guardando Rubicon si ha la sensazione che il riferimento del titolo sia al famoso cubo spaccameningi. Tanto è ingarbugliato e incomprensibile se osservato da vicino, una mossa dopo l’altra, quanto è coerente e completo se visto da una prospettiva più lontana. Allora ci accorgiamo che ogni cosa ha sempre avuto il suo spazio, che tutto ciò che serve è davanti a noi, che basta solo un po’ di buona volontà per trarre un ordine dal caos. Il cammino lento e riflessivo del terzo progetto originale della storia della AMC nasce e muore nel giro di una stagione, ringrazia tutti ed esce di scena senza far rumore: siamo nel non tanto lontano 2010.

Ciò che rimane sul palco sono piccole tracce di una delle sfide più difficili lanciate allo spettatore occasionale negli ultimi anni. Un percorso in tredici puntate che programmaticamente si rifiuta di giocare con gli schemi narrativi ordinari, in cui la rivelazione è un premio da guadagnare, dove un setting ingiallito e deprimente è lo specchio delle solitudini che si muovono negli ambienti. E tutto è lento, troppo lento. Una cospirazione internazionale, omicidi, spionaggio, codici da decifrare: nessuna di queste parole chiave della vicenda prepara il terreno a ciò che sta per avvenire, o non avvenire.

Will Travers (James Badge Dale) è un’analista che lavora per l’intelligence americana, taciturno, focalizzato sul lavoro, in qualche modo spezzato dalla morte della moglie e della figlia nel corso dell’attacco alle Torri Gemelle. Impiegato al think tank API (American Policy Institute), lavora sull’individuazione di comunicazioni nascoste e sul deciframento di messaggi cifrati. Scopre schemi ricorrenti in alcuni cruciverba e li sottopone al suo amico e capo David Hadas, che di lì a breve rimane vittima di un incidente ferroviario. Prima di morire – una morte sospetta – tuttavia sembra che l’uomo sia riuscito a scoprire qualcosa: come ultima azione fa giungere a Will un messaggio cifrato che potrebbe rappresentare la chiave per una cospirazione di portata internazionale.

Questo il nucleo centrale di Rubicon, attorno al quale gravitano una serie di situazioni più o meno legate. Per la vedova Katherine Rhumor (Miranda Richardson) c’è la ricerca, forse vana, di un senso nel suicidio del marito Tom, che si è ucciso dopo aver ricevuto un quadrifoglio nascosto nel giornale. C’è Ed Bancroft (Roger Rubinson), un ex analista di codici la cui mente è stata consumata dal troppo lavoro. E poi ci sono i colleghi del protagonista all’API: Maggie Young (Jessica Collins), l’assistente di Will, invaghita di lui, Tanya MacGaffin (Lauren Hodges), con qualche problema personale, Miles Fiedler (Dallas Roberts), uscito da poco da un divorzio, Grant Test (Christopher Evan Welch), irascibile, tra i più grandi del gruppo. Ai piani più alti si muovono, spesso nell’ombra, Kale Ingram (Arliss Howard), supervisore di Will, e Truxton Spangler (Michael Cristofer), capo dell’API.

Rubicon rappresenta per il piccolo schermo ciò che La talpa (Tinker Tailor Soldier Spy) di Tomas Alfredson avrebbe fatto per il cinema l’anno successivo. Il tentativo di andare a recuperare le atmosfere caratteristiche del thriller spionistico anni ’70, con le sue svolte tipiche, le sue ambientazioni, i suoi ritmi. L’uomo solo che, in un clima di completa diffidenza e spaesamento, come avveniva nei Tre giorni del condor di Sydney Pollack, parte da una tragedia iniziale facendosi strada verso la verità. O almeno provandoci. Senza certezze, senza amici, senza famiglia: l’elemento più disturbante rimane la mancanza di una facile e rassicurante distinzione tra buoni e cattivi. La battaglia più spesso si rivolge all’interno, contro lo stesso sistema che, in un periodo di diffidenza e crisi politica-economica come quello degli anni ’70 (e da qui il collegamento con un altro classico del genere, Tutti gli uomini del Presidente di Alan Pakula), gli americani non faticavano a individuare come nemico.

Rubicon fa di tutto per celare la sua ambientazione contemporanea. Sappiamo, a partire dalla stessa citazione dell’11 settembre, che la storia si svolge al giorno d’oggi, ma ad un livello più inconscio questo non viene mai avvertito. Spariscono i computer, spariscono le tecnologie, rimane il senso di spaesamento di chi spesso, in conclusione di episodio, si smarrirà nel cercare conferme di intercettazioni nel proprio appartamento, non troppo diversamente da come appariva il personaggio di Gene Hackman nel finale di La Conversazione di Francis Ford Coppola. Il senso di soffocamento, percepito ancora di più data la lentezza della storia, diventa anche il nostro. In un’intervista il creatore Henry Bromell avrebbe rivelato come la serie sia stata quasi interamente girata in un palazzo: pochi esterni, zero azione, tanti silenzi.

E in tutto questo una cospirazione che non è il motore costante della storia. Capita che un episodio emblematico, il quarto, The Outsider, abbandoni l’indagine principale per focalizzarsi sul gruppo alle prese con una decisione difficile. E capita che un’altra puntata (The First Day of School) si apra e chiuda sulla stessa inquadratura, la vetrata di un palazzo, riletta alla luce di ciò che abbiamo visto. Come tutti gli omaggi, anche Rubicon gioca su stilemi e svolte più o meno noti perché ripresi più volte. Il titolo, come si diceva, richiama il fiume attraversato in armi da Cesare, e quindi il punto di non ritorno, il gesto oltre il quale tutto è destinato a mutare. Il suicidio di Catone, che vedeva vicina la fine della Repubblica, diventa anche il gesto violento di Tom Rhumor. Per scoprire quale fiume sia stato attraversato in questo caso dovremo invece attendere a lungo, e non tutti i pezzi del mosaico alla fine – ma nemmeno durante la visione – ci appariranno chiari. La cancellazione anticipata del primo progetto originale di AMC dopo Mad Men e Breaking Bad lascia spazio ad amarezza e confusione. Eppure…

Eppure c’è qualcosa, nell’incompiutezza di quest’opera, che la rende forse ancora più sospesa, forse ancora migliore. Esattamente come nei Tre giorni del condor, quella che viene raccontata è una certa fase, quella della ricerca, quella delle mille incertezze, della cospirazione da portare a galla, e del finale che ci lascia la libertà di immaginare il futuro. Quando la posta in gioco si fa così alta, è difficile non portare avanti una trama spionistica senza mutare il genere della serie in fantapolitica (che poi non è tanto diverso da ciò che ha fatto Homeland). Dopo aver ideato lo show con Jason Horwitch, che poi avrebbe lasciato per divergenze creative, Bromell ha tratto il meglio da ciò che aveva. Rubicon è lento, difficile, frustrante, ma è anche uno di quei casi in cui la tv ha cercato di imporsi oltre lo spettro dei rating, cercando di uscire dal complesso di inferiorità che per tempo l’ha ingabbiata.