The Wire è un logoro divano arancione che sboccia mestamente al centro di un misero prato tra le case di mattoni. Su quel divano si ammassano giovani corpi di afroamericani, già plasmati dalla mentalità da quartiere, pedine nel gioco della vita che si consuma a Baltimora. È un’isola di degrado che diventa il punto di osservazione privilegiato, assumendo in sé la stessa funzione narrativa che l’angolo di strada aveva in The Corner, l’opera precedente di David Simon. The Wire è l’opera-mondo dell’autore americano, l’affresco fotorealistico che traduce per immagini una letteratura di denuncia sociale. Stratificato e universale, elevatissimo nello stile e nella costruzione dell’intreccio, di sconvolgente potenza narrativa, The Wire è uno dei più grandi capolavori della storia della televisione.

Ambientato a Baltimora, The Wire racconta la lotta al narcotraffico da parte del dipartimento di polizia. Su questa descrizione piuttosto vaga, The Wire imbastisce una narrazione che assume la forma dell’inchiesta, rigorosa, stratificata e dettagliata. Lo show di David Simon, andato in onda per cinque stagioni sulla HBO dal 2002 al 2008, taglia violentemente interi strati della società civile, assumendo nel corso delle stagioni un punto di vista sempre più omnicomprensivo e totale. Lo scenario è quello costruito nel lunghissimo termine, che ingloba di stagione in stagione intere porzioni della sovrastruttura urbana per fornire un quadro sempre più ampio e complesso.

La prima stagione si concentra sul dipartimento di polizia e sui piccoli delinquenti di quartiere. Spiccano in particolare i detective Jimmy McNulty (Dominic West) e Bunk Moreland (Wendell Pierce), che cercano di incastrare la famiglia Barksdale. Conosciamo figure da quartiere come il tossico Bubbles (Andre Royo), ma anche altri criminali come Stringer Bell (Idris Elba) e Omar Little (Michael K. Williams). Già la seconda stagione ribalta ogni aspettativa dello spettatore, concentrandosi su un’altra zona, quella del porto, dove il sindacalista Frank Sobotcka (Chris Bauer) è coinvolto in alcuni affari illeciti. Nella terza stagione si impongono scenari relativi alla politica e alla burocrazia, e conosciamo l’ambizioso Thomas Carcetti (Aidan Gillen). La quarta stagione riserva ampio spazio alle falle del sistema scolastico offrendo una prospettiva ancora più giovanile sul malessere sociale, ed è importante qui il punto di vista di Roland Pryzbylewski (Jim True-Frost). La quinta stagione, infine, racconta i legami tra mondo dell’informazione e agenda politica.

Negli anni in cui Tony Soprano si configura come un Amleto seriale in The Sopranos, il personaggio disgregato in costante conflitto con la propria essenza, The Wire costruisce un racconto opposto. Fondamentali i contributi di Ed Burns, detective della polizia di Baltimora per venti anni, del giornalista Bill Zorzi, dello scrittore Raphael Alvarez, determinante per la scrittura della seconda stagione. Per comprendere meglio l’opera è illuminante far riferimento a una lunga intervista del 2007 rilasciata da David Simon a Nick Hornby, nella quale l’autore afferma:

“The Wire è una tragedia greca nella quale le istituzioni postmoderne sono le forze dell’Olimpo”.

Questa definizione di Simon ci dice che, nonostante una costruzione psicologica di alto livello e l’intensa parabola di alcuni personaggi, la forza di The Wire risiede nelle forze segrete che animano lo scenario. Esiste un fatalismo che colpisce tutti i personaggi, comunque sia espressioni di una sovrastruttura soffocante, tentacolare e irrimediabilmente corrotta. La struttura a blocchi delle stagioni serve solo a dare una visione più analitica, ma non c’è dubbio che tutto, dalla politica alle forze dell’ordine, dalla criminalità organizzata al piccolo delinquente di strada sia legato. Baltimora stessa, in fondo, è l’emblema di una certa America che ha perso il treno della post-industrializzazione e vive una stasi.

The Wire

Tornando al concetto sopra espresso, sarà il personaggio di Ervin Burrell a pronunciare la frase: “It’s Baltimore, gentlemen, the gods will not save you”, che ricorda molto “lascia perdere Jake, è Chinatown”. Tutto è previsto, tutto è coerente con se stesso. La visione di David Simon è complessa e faticosa per lo spettatore, ma è tra le più strutturate e di ampio respiro che siano mai apparse sul piccolo schermo. L’intenzione non è solo quella di giocare sul ribaltamento degli stereotipi da procedurale poliziesco senza pretese, ma quella di costruire una vera sfida per lo spettatore. Qualche traccia di umorismo qua e là – rimane storico il tormentone “shit” di Davis – stempera i toni, ma l’asciuttezza dell’esposizione domina su ogni cosa.

The Wire riprende, estendendo a dismisura, quell’approccio semidocumentaristico già sperimentato in The Corner. La camera emerge quasi per caso sulle scene incriminate, un occhio indiscreto su scenari quotidiani, spesso seminascosto da muri o finestre, a creare così una composizione nella composizione, fatta di zoomate e rapide messe a fuoco. The Shield di FX riprende qualcosa da qui. Praticamente assente la colonna sonora: la musica è solo quella effettivamente presente in scena perché udita anche dai personaggi. Questa scelta, oltre a seguire l’idea di realismo sociologico della serie, sottrae un ulteriore spiraglio alla lettura dello spettatore, laddove la colonna sonora ha sempre la funzione di suggerire un mood o una chiave di lettura per ciò che stiamo guardando.

Più in generale, come se dovesse trasportare per immagini alcune regole chiave di un pezzo di cronaca, The Wire limita al massimo gli aggettivi (la musica può essere considerata un “aggettivo”) o gli avverbi superflui. Racconta tutto con la massima precisione, e questo basta a creare la sensazione ricercata, ma senza tenere per mano il lettore-spettatore.

The Wire viene generalmente indicato come l’esempio fondamentale di quella nuova “letteratura televisiva” che caratterizza la peak tv. Dickensiano è il termine più utilizzato – “The Dickensian Aspect” è anche il titolo di un episodio dello show – in riferimento alla struttura corale, di ampio respiro, nel lungo termine, che caratterizza il romanzo d’appendice ottocentesco. Nessun personaggio nella serie appare in tutti gli episodi. Ma lo sguardo di The Wire risente anche del retroterra giornalistico del suo autore, qualcosa che si esprime nell’evitare determinate soluzioni, tipiche invece della tv, come ad esempio il cliffhanger o il flashback.

Una sintesi di postmodernità e narrazione classica esplicata in quella che forse rimane la scena più nota dello show. Pochi ragazzi di colore, intorno ad una scacchiera, ad ascoltare le regole del gioco spiegate utilizzando come metafora quella dell’organizzazione criminale. Le pedine sacrificabili, i pezzi che valgono meno degli altri, ma tutti – compreso il re – costretti ad obbedire a regole assolute che ne vincolano il percorso. La metafora qui è doppia, perché a livello metanarrativo si riferisce a quella sovrastruttura socio-politica che preesiste ad ogni relazione umana, ad ogni percorso individuale, e che blocca tutti i personaggi all’interno del campo di gioco.

Negli anni seguenti David Simon avrebbe proseguito la sua collaborazione con la HBO firmando alcune opere imperdibili come Generation Kill, Treme e Show Me a Hero. The Wire non spreca un secondo a disposizione, e non ha bisogno di sottolineare nulla. È essenziale e rigoroso come nessun’altra serie nella storia.