Vengono dalla cinematografia più interessante del momento (assieme a quella cilena), ovvero la franco-canadese, la Berlinale ha messo il loro film nella sezione Panorama e hanno più di un’idea su cosa stia succedendo al cinema del loro paese, un luogo che secondo François Delisleè il prodotto dei film d’autore francesi e del genio commerciale americano”.

Perchè in questi anni sembra che il cinema del Quebec sia rinato (o anche semplicemente “nato”), come si arriva ad un periodo così fecondo e come lo si vive dall’interno? Con François Delisle e Fanny Malette, regista e interprete di Chorus, abbiamo discusso del loro film, del loro paese, di come si lavori nel Quebec e di come abbiano creato il loro piccolo film.

Non solo Xavier Dolan o Denis Villeneuve, in Europa arrivano anche film commerciale del Quebec come Starbuck. Quando succedono queste impennate creative solitamente c’è un cambio di politica economica dietro, è stato così?

FD: No, è cambiata la generazione che fa film. I baby bommers ormai non ne producono quasi più ed è un bene, almeno questo è il mio punto di vista. Ora siamo molto meno complessati nel cinema che facciamo e poi ovviamente siamo anche molto supportati sebbene i budget non siano mai incredibili.

FM: Io recito da tanti anni e con i baby boomers ci ho lavorato, sono stata in mezzo al cambio di generazione e vedo le differenze. Ora i nostri film girano molto di più. Il primo che feci non uscì dal paese mentre quando ho cominciato a lavorare con la nuova generazione da subito ho girato per festival. Vedo anche molto come ci siano più donne nell’industria, registe o direttrici della fotografia e non devono chiedere di stare lì, si prendono il loro posto che meritano.

Il soggetto di Chorus è un tema su cui spesso il cinema torna: la perdita di un figlio, ti interessavano gli altri film in materia?

FD: Io volevo realizzare principalmente un film sulla riconciliazione e la consolazione, non ho guardato nient’altro, sono fatto così. La gente mi chiede se faccio ricerche o guardo film ma in realtà mi informo quanto basta per essere sicuro che quel che mostro sia corretto, mi occupo dei fatti. Per Chorus mi sono sentito con un poliziotto che mi ha fatto da consulente. Preferisco lavorare di fantasia per lo svolgimento, prendo qualcosa di drammatico e vado più in profondità possibile. Come referenza uso la mia esperienza, la mia immaginazione.

Come mai la scelta di girare in bianco e nero?

FD: Mi è stato chiaro da subito che la fotografia doveva essere quella. Al centro di tutto c’è una coppia e la struttura binaria del bianco e del nero era una buona maniera di approcciare la materia. Esistono solo due colori e devi muoverti nelle zone grigie, così come nella storia ci sono un uomo e una donna, uno in un paese freddo e l’altra in uno caldo. Inoltre il bianco e nero è anche una maniera per essere più vicino ai personaggi, i colori sarebbero una distrazione.
Senza contare poi che ho preso tutte le decisioni di costumi o scenografie per il bianco e nero e non avrei potuto cambiare in corsa. Cioè la maglietta dei carcerati era rosa perchè in bianco e nero aveva un buon tono di grigio.

È vero che questo non è il primo film in cui reciti dove la storia gira intorno alla scomparsa di un bambino?

FM: Si è vero ma l’altro era molto diverso, anche lì interpretavo la madre però si parlava di una bambina appena scomparsa non dopo diversi anni come in Chorus.

E ti è servita quell’esperienza per per questa nuova?

FM: No. L’unica cosa che mi è servita è stata la mia esperienza di madre.

Immagino che essendo tutta la storia vissuta dai due genitori il rapporto con l’altro attore, Sebastien Ricard, sia stato fondamentale…

FM: Si, Sebastien e io eravamo nella stessa scuola di recitazione ma è la prima volta che lavoriamo insieme da anni ormai. Siamo come fratelli, non c’era bisogno di dire niente, sapevamo già come affiatarci, io so bene come approccia i personaggi e lui conosce la mia tecnica. Con il senno di poi l’esserci reincontrati dopo anni è stato un vantaggio nel dar vita ad una coppia che torna insieme dopo tanti anni in cui sono stati separati.
Ad esempio nella scena in cui guardiamo il video del rapitore la cosa più difficile per me era relazionarmi alle sue emozioni, lo sentivo accanto a me. Mentre la parte che preferisco è come i due non piangano leggendo la lettera del figlio ma siano invece felici, ed è importante vedere questa luce nel film secondo me.

Il film ha una precisione inesorabile che dà l’idea che sia tutto pianificato in preproduzione. Sei uno di quei registi che in sala di montaggio deve solo assemblare quel che ha girato e non cambia nulla?

FD: Sono uno che prepara tutto, perchè sono anche l’operatore e mi occupo della fotografia, dunque ho già tutto in testa, arrivo al montaggio con le idee chiarissime e ci sto poco. Credo che essere così preparati sia un trampolino di lancio per la creatività, sai di avere un materasso su cui atterrare se tutto va male.