L’8 Giugno 1984 non sarebbe male come data per segnare l’inizio del cinema fantastico di ultima generazione. Quello che, con molta calma, è arrivato alla moderna esplosione di film tratti da fumetti e che ha riscritto il linguaggio del cinema d’avventura per ragazzi, ampliandone la godibilità e elevandone il livello produttivo.

In quella data uscivano al cinema (nello stesso giorno!) Ghostbusters di Ivan Reitman e Gremlins di Joe Dante. Nemmeno a dirlo il primo era un blockbuster con parte del cast del Saturday Night Live, un film in grande stile del medesimo team dietro Meatballs e Stripes, mentre il secondo era uno dei primissimi film di serie B crossover, cioè in grado di uscire dal proprio limitato circolo e piacere anche ad altri pubblici, più raffinati ed esigenti. Entrambi avevano a che vedere con il fantastico in una maniera completamente diversa rispetto al passato. Non era quel che raccontavano ma come lo raccontavano: l’atteggiamento che questi due film tenevano rispetto al pubblico e rispetto al proprio genere.

Ghostbusters era la leggerezza, cioè aveva l’inedita capacità di condurre una commedia piena di gag e interpretata principalmente da comici (nessuno era “attore”, tutti venivano dalla tv), attraverso uno svolgimento drammaturgico molto avventuroso, sperimentando i primi embrionali effetti visivi al computer e appoggiandosi molto ai pupazzoni stile Spielberg (cioè fatti meglio, inquadrati con più intelligenza e integrati nella storia per farli sembrare veri).

Gremlins era il contrario: un horror puro, scritto da un genio del cinema che sarebbe venuto (Chris Columbus), che raccontava di creature (potenzialmente) mostruose in grado di trasformarsi nella notte secondo un’antica leggenda orientale, ma iniettato di una dose inedita di comicità e di amore per un tipo di cinema (quello d’exploitation anni ‘50/‘60) che non si faceva più.

In questi due film ci sono i semi di molto di ciò che il loro successo ha consentito che venisse prodotto (da Explorers a i Goonies fino a Piramide di Paura, Ritorno al futuro, Grosso Guaio a Chinatown e via dicendo) un universo di cinema puramente “fantastico” che non aveva complessi d’inferiorità rispetto ai generi più celebrati come la fantascienza o l’avventura ma li mescolava aggiungendo un po’ di passione per i mostri, la bava e gli eroi sbruffoni. Che poi è la ricetta di Iron Man, Avengers, Trasnformers e gran parte del cinema contemporaneo: divertirsi assieme al pubblico senza per questo trattare la propria storia con poca serietà.

Certo questi due film non venivano dal nulla. Prima del 1984 c’è stato il 1981, anno in cui uscivano due film senza i quali questi non sarebbero potuti esistere. Si tratta di I predatori dell’arca perduta , il vero creatore della moderna idea di cinema d’avventura, e di Un lupo mannaro americano a Londra, il primo film dell’orrore capace di essere una commedia senza cedere nulla in termini di paura. Landis poi, con Animal House, è stato anche uno dei primi a far lavorare ad alti livelli Harold Ramis e consentirgli di arrivare a Ghostbusters.

Eppure in Ghostbusters c’era uno spirito molto nuovo che non era quello dei film classici di Robin Hood, in cui lo scanzonato non sconfinava mai nelle battute vere e proprie, nè era quello del cinema d’azione (fino a quel momento serissimo) nè infine quello del cinema di fantascienza che con gli anni ‘70 aveva scoperto una profondità e una gravitas prima sconosciute. Era  qualcosa che incrociava tutto ciò (la mitologia dei fantasmi era molto coerente e seria, non da macchietta), eppure i medesimi argomenti che prima avrebbero necessitato di un certo rigore potevano essere trattati con divertimento, si poteva ridere non solo dei fantasmi e di quel genere (quello già lo facevano le parodie) ma si poteva ridere con i fantasmi, cioè con la complicità e non puntando il dito per canzonare.

In Gremlins invece c’era la rivincita dei pessimi film di serie Z con mostri. L’affermazione di quel principio tipico del cinema per il quale nel momento in cui un film fonda una mitologia ed è in grado di mantenere una certa coerenza interna, allora potrà mescolare tutto quel crede e riuscire anche a fare un horror divertente che, rispetto al capolavoro di Landis, aveva anche un fascino da guilty pleasure per come flirtava con i canoni dei filmacci grossolani.

Trent’anni e un’inifinità di passaggi televisivi dopo questi due film appaiono dunque come la più importante delle molte matrici del cinema fantastico contemporaneo, quella zona grigia nella quale si muovono gli autori più spiritosi che non desiderano realizzare commedie pure, ma sono capaci di concepire il cinema in un senso più ampio, non esclusivo ma inclusivo del maggior numero possibile di livelli di lettura (Edgar Wright ne è l’esempio più scintillante).

Con quei due film infatti si è affermato un principio che avrebbe guidato il resto dell’evoluzione del cinema, cioè che esiste un pubblico di ragazzi appassionato di avventure che può essere trattato con così tanta intelligenza e raffinatezza che anche gli adulti ne rimarranno colpiti.

È il medesimo principio di sdoganamento e maturazione di un genere che la Pixar ha applicato all’animazione: non perdere il proprio pubblico di riferimento ma scrivere e girare quel che può andar bene a loro con il piglio che può piacere anche a tutti gli altri. Quello del cinema migliore.