Il cinema online legale più visto di quello pirata? In realtà no

(da Sandvine)

I risultati di una ricerca Sandvine, chiamata Global Internet Phenomena e pubblicata da poco, hanno generato molti articoli sui giornali che annunciavano la morte della pirateria. Quello che la ricerca infatti direbbe è che il volume di traffico video legale, quindi servizi come Netflix (in Italia non attivo ma in America uno dei principali per il noleggio di film in streaming), è maggiore del volume generato dai protocolli torrent, quindi la pirateria. Ma questo non significa che legalità batte pirateria.

Innanzitutto si parla di un tipo di traffico che non è LA PIRATERIA ma una sua parte, una parte importante ma pur sempre un parte, e secondo si parla di dimensioni di file e di banda differenti. Inoltre si calcola solo il volume in download e non quello in upload, la differenza è importante perchè per vedere un film in streaming basta il download (io scarico le immagini del film) per condividere un documento pirata al pari del download ci deve essere anche un upload (io scarico, quindi prendo, ma sono anche pronto a dare).

Insomma non è vero che il traffico illegale di film ha battuto quello legale, ma è vero che quello legale è molto cresciuto rispetto allo scorso anno, almeno del 9%. Che è sempre qualcosa.

Blip.tv ripensa se stessa e lo fa attorno alle web serie

(da Blip.tv)

Adesso la home page del sito si presenta in una veste grafica e tecnica completamente diversa e lo fa con un intento molto preciso: facilitare l’accesso ai contenuti seriali che ospita grazie ad una selezione editoriale ed un’architettura grafica palesemente spinte sulla qualità.

Gli utenti di tablet spendono. Decisamente

(da Nielsen)

Secondo l’ultima ricerca Nielsen chi ha un tablet è pronto a spendere molto più degli altri tipi di utenti. O almeno questo è vero per gli early adopters, cioè coloro che ad oggi sono i primi ad avere un tablet. Per tablet chiaramente si intende in 4 casi su 5 un iPad.

Il 63% degli acquirenti di un tablet ha già pagato per almeno una app e in generale le app si stanno dimostrando fruttuose sotto più di un punto di vista. Al normale pagamento all’atto del download infatti va affiancato quello per i contenuti interni (i giornali ad esempio) e quello del tablet come veicolo per la sottoscrizione di abbonamenti ad altri servizi (tipo pay tv).

Bisogna però tenere presente due cose. Da una parte gli utenti che comprano tablet, quelli che sono più propensi a spendere, sono gli stessi che non spendono in rete (dunque non sono loro ma il mezzo che è percepito come appropriato), secondo che un early adopter, cioè una persona che ad oggi sente l’esigenza di comprare un tablet, è genericamente una persona disposta a spendere in tecnologia e curiosa. Caratteristiche che il grande pubblico non sempre ha.

BitTorrent diventa social per condividere grandi file tra amici

(da TorrentFreak)

Il punto è che BitTorrent non voleva essere il volano della pirateria. Il creatore dei protocolli torrent (una maniera di trasferire file utilizzata oggi da tanti programmi diversi) aveva immaginato per il suo sistema una vita legale. Bram Cohen avrebbe anche voluto fare dei soldi con l’idea (geniale) di un sistema per il quale più persone scaricano un file più si va veloce. Invece il protocollo torrent è usato quasi solo per la pirateria.

Nonostante i molti tentativi degli ultimi anni di motivarne usi legali Cohen ancora è vittima della grande utilità illegale della sua idea. Adesso i due software ufficiali BitTorrent e uTorrent saranno i primi sperimentare una nuova funzionalità quella dei canali social.

In poco qualsiasi utente può creare un profilo e aggiungere degli amici come in qualsiasi social network. All'interno dei canali personali poi si possono condividere file. L'idea è che ad oggi ci mandiamo molti file tramite messenger o mail ma alcuni sono troppo grandi e pesanti per questi sistemi allora un social network orientato alla condivisione di file molto pesanti può cambiare il gioco.

Nel social network di BitTorrent è interesse di tutti avere molti amici, perché più amici hai più la condivisione di un file funziona e la sua velocità aumenta. Se poi questo sistema salverà il protocollo torrent dalla pirateria o lo renderà ancora più perfetto è un altro paio di maniche.

Apple di certo non si arrende: “AppStore è mio!”

(da Bloomberg)

La battaglia è meno futile di quel che sembra. La lotta di Apple contro il resto del mondo informatico (Google, Microsoft, Nokia e Amazon, per citare i principali oppositori) per il diritto ad apporre un copyright sul termine AppStore è il centro su cui si gioca il futuro a breve termine informatico.

Il sistema delle app, cioè piccoli software programmabili da chiunque e venduti in uno store apposito su un determinato strumento tecnologico è la nuova manna. Funziona ed è applicabile a qualsiasi realtà. Google ha messo un app store sui suoi telefoni ma anche sulle Google TV e ne ha fatto uno per le estensioni del suo browser Chrome, Nokia lo vuole e Microsoft pure, per telefoni e quant’altro. Apple stessa lo ha allargato ai computer e medita di farne un nuovo must.

Il punto è che si tratta di un metodo non solo pratico per gli utenti ma soprattutto ottimo per i programmatori che hanno molte più garanzie, sono stimolati a programmare per quella piattaforma (che dà un ritorno monetario concreto e al momento non è piratabile) e infine possono fare software ad hoc per strumenti ad hoc. E se i programmatori programmano è più probabile avere applicazioni utili e interessanti.

E visto che si tratta di qualcosa che funziona molto con il pubblico dei “non tecnologici” è cruciale utilizzare un nome che sia già noto e sul quale ci sia fiducia: AppStore.

Gli oppositori di Jobs dicono che AppStore è “un termine generico e come tale non può essere soggetto a copyright” ora Apple ha finalmente risposto: “Non è generico ma totalmente proprietario”. Probabilmente ha ragione.

C’era Facebook dietro le accuse a Google

(da The Inquirer)

Succede che ad un certo punto Google, Microsoft e Apple sono chiamati dal Congresso per rispondere di accuse di tracciamento degli utenti e violazione della privacy. L’affare si risolve in un niente di fatto, il crimine non sussiste, ma la notizia va sui giornali e in più la nota società di PR Burston e Marsteller invia a molti giornalisti documentazione e “suggerimenti per articoli inerenti le violazioni della privacy da parte di Google”. Dietro Burston e Marsteller c’era il vero mandante: Facebook.

Non solo la società di PR dimostra di non conoscere la superbia dei giornalisti che di certo non si fanno dire da un mail di cosa scrivere, ma soprattutto è incredibile che non abbia considerato come la cosa sarebbe saltata fuori.

Facebook infatti ha da sempre un problema con la privacy, l’ha spesso violata, alle volte cambia le regole secondo le quali tratta il materiale dei propri utenti e dimentica di comunicarlo e in più una volta Zuckerberg fece un discorso sostenendo che la privacy come la conosciamo è ormai un concetto passato. La sua idea era dunque di rendere la cosa un problema di tutti e non solo suo, spostando l’attenzione del pubblico o, come l’hanno messa loro una volta scoperti: “Mostrare al pubblico degli eventuali problemi relativi a Google”.

Fatto sta che Google sta lanciando il suo Google Social Places, una specie di social network, qualcosa comunque di possibilmente concorrente a Facebook (almeno in certe sue funzioni) e quanto è accaduto fa pensare che Zuckerberg un po’ lo tema.