I registi come Francesco Rosi muoiono due volte. La prima volta è il fisico a cedere, la seconda li uccide l’etichettamento. Come già accaduto a Germi, ricordato come il regista socialdemocratico, un incasellamento che lo ha privato dell’altro statuto che avrebbe meritato, ovvero quello di maestro assoluto dei generi (quando l’ultima volta che avete sentito il suo nome assieme ai più grandi del cinema italiano? E dire che vanta più di capolavori di molti altri e un Oscar!), anche Rosi è destinato all’etichetta, nel suo caso quella del regista impegnato, dei film d’inchiesta, pronto per raggiungere Elio Petri nella memoria collettiva, anche se i due non hanno davvero nulla in comune, anzi sono cinematograficamente agli antipodi (tanto nervoso e immediato Petri quanto calmo e invisibile Rosi).

È morto nel sonno, all’età di 93 anni nella sua casa di Roma anche se era di Napoli, e di fatti del meridione si era interessato fin da subito e poi per gran parte della sua carriera, interrotta nel 1997 con La tregua (il film che John Turturro ricorda con maggior affetto tra quelli da lui interpretati). Cinema di gangster si direbbe oggi, di malavita a molti livelli che scavava nei fatti reali per contaminarli di finzione, caratteristica che gli rimarrà così appiccicata da renderlo per sempre “il regista del cinema di denuncia”. In realtà Rosi faceva quel che oggi è prassi, le sue storie le radicava molto bene nel tessuto vero, si trattava di trame di finzione (piene di espedienti narrativi, altamente drammaturgiche e molto sfaccettate) che però erano precise nei riferimenti. La malavita raccontata per quello che fa davvero, come Gomorra o come Quei bravi ragazzi, con i piani che realmente mette in piedi la mala e attraverso le ingiustizie che perpetra proprio negli anni in cui il film è nelle sale.

Invece Rosi è stato un genio non un regista di film di denuncia, un vincitore di Leoni d’oro e Palme d’oro, premi che non si danno a film politici ma ad opere innovative e devastanti (chi dovesse opporre a questo discorso la presenza di una Palma d’Oro a casa di Michael Moore mi metterebbe facilmente alle strette), uno capace di inventare una maniera tutta propria di gestire, modulare e moderare le incursioni del realismo nelle grandi finzioni. Non faceva film semidocumentaristici, quello stile là davvero non era nelle sue corde, era anzi bravissimo nell’esagerare e dipingere caratteri potenti ed espressionisti, grandi presenze filmiche. Come Orson Welles amava gli uomini grandi e grossi, influenti e di cui avere timore, era appassionato ai limiti del titanismo umano e della maniera in cui il potere possa cambiare il mondo intorno agli esseri umani. E cosa meglio del crimine o della politica se si è affascinati del potere?

Potete vedere quando volete Le mani sulla città o Il caso Mattei o Cadaveri Eccellenti (film di un’economia narrativa e una ricchezza espressiva fenomenali) ma se volete davvero diradare quel fumo che offusca gli occhi causato dall’insostenibile litania del “regista del cinema di denuncia”, allora guardate Salvatore Giuliano (la scena in cui ne viene annunciata la morte, puro West, pura arroganza cinefila) oppure La sfida (il momento mostruoso in cui il protagonista vuole mettere paura ai rivali uccidendo un polpo da lui pescato, Sergio Leone prima di Sergio Leone). O fate una cosa da cinema “livello avanzato”: per ricordare Rosi guardate Il camorrista di Giuseppe Tornatore, un film che sembra citare Rosi in ogni inquadratura o dialogo, mescolandolo alla passione per la tecnica americana del suo allievo per antonomasia. Da quello si vede quanto il suo stile si è tradotto nel cinema moderno.

Vi diranno (e scriveranno!) che visti oggi i suoi film ancora sono attuali (come se gli altri grandi davvero invechiassero, come se Truffaut invece non fosse attuale o Hitchcock o Lang), che i suoi film sono atti coraggiosi e per quello vanno ricordati. Invece è vero il contrario: film di denuncia di Rosi non sarebbero mai stati memorabili non fossero stati realizzati attraverso quell’abilità narrativa. Non era di rottura raccontare la mafia o gli inciuci politici, era un’impresa ai limiti dello sperimentalismo farlo con uno stile pienamente cinematografico, riservando a queste storie il medesimo trattamento di quelle totalmente inventate. I film di Francesco Rosi sono pieni di scene madre, dialoghi enfatici o ardite disposizioni (quante scene memorabili con almeno 5-6 attori davanti alla macchina da presa ci sono nei suoi film?), sono scritti con una leggerezza che gli consentiva di fare puro cinema di gangster, il genere più americano di tutti, senza abbandonare le riconoscibilità dello stile italiano, con la regia minimalista di Monicelli e la voglia d’essere melodrammatico di De Sica ma un guizzo di furberia e di audacia in più che lo portava in territori che in quegli anni era l’unico (da noi) ad esplorare.

Per questo motivo io stasera rivedrò I magliari con Alberto Sordi, Aldo Giuffrè e Renato Salvatori, un cast da commedia che Rosi e Suso Cecchi D’Amico strizzano come un panno bagnato con forza disumana fino a che non escono le gocce del cinema di genere, piegato alle esigenze dei film italiani.