Da ieri è di nuovo al cinema I Quattrocento Colpi (ma attenzione! Solo in certe giornate), forse il più grande film di sempre, sebbene non uno dei più decantati. Qui si può vedere in quali sale viene programmato, non è semplice per nulla riuscire a trovarlo, ma del resto la cinefilia moderna è alla portata di tutti e si svolge in rete (e grazie a Dio), al contrario quella più antica da perseguire, quella in sala, è diventata difficilissima.
Difficile soprattutto per un film simile, la cui riedizione non è strombazzata come le precedenti di Leone, Chaplin, Lubitsch e via dicendo, uno che non ha l’aura di perdizione di Apocalypse Now!, non ha l’audacia di Blade Runner, l’epica di Via col vento, l’intellettualismo di Otto e mezzo, la sofisticazione di La donna che visse due volte, le soluzioni di Quarto potere o la potenza drammaturgica di Ladri di biciclette, un film come diceva Truffaut stesso “girato in fretta”, fatto con pochissimi soldi e realizzato “senza dargli importanza” da un cineasta con alle spalle molti corti ma mai un lungo. Uno alla prima vera esperienza.
Eppure forse è il più grande film di sempre.

In realtà com’è noto Truffaut non era un regista ma un cinephile, termine e categoria umana che si andava delineando in quegli anni in Francia, vale a dire uno a cui piacciono i film. Ma tanto! Si vantava di aver visto 16 volte La carrozza d’oro di Renoir (e ovviamente tutte in sala che altri modi non ce n’erano), non aveva fatto scuole di cinema ma gli piacevano i film e quindi girava corti, fino a decidere di tentare il lungo con una storia che nasceva per l’appunto per un ennesimo corto. Diceva che Quarto potere era il film che gli aveva fatto decidere di diventare anche lui regista e lo definiva “il film che ha stimolato più vocazioni cinematografiche”. È morto nel 1984 Truffaut, all’alba dell’era dei videoregistratori (al cui proposito diceva: “Sogno il giorno in cui ognuno possa possedere la propria copia privata di Rapporto confidenziale”), e non ha mai saputo che probabilmente I quattrocento colpi, negli anni, ha battuto Quarto potere quanto a vocazioni.
Il suo corto doveva essere semplicemente un ragazzo che corre, una corsa in fuga da tutto che finisce in spiaggia. Quella parte è diventata il finale di I quattrocento colpi, un finale aperto stranissimo, come non si era mai visto e come tutt’ora si vede raramente (anche se in molti lo imitano e lo citano), che arriva al termine di 99 minuti narrati andando in deroga a qualsiasi regola del cinema e affrontando quelle della vita. Uno dei tanti motivi per i quali forse è il più grande film di sempre.

i 400 colpi

La storia è quella di Antoine, ragazzo di 13 anni non particolarmente benvoluto in famiglia: il padre non c’è, la madre lo considera poco più di un peso e il patrigno lo tollera, a scuola non combina molto sebbene abbia un mondo interiore vivace, legge Balzac ma sembra andargli tutto storto e lui ci mette del suo per peggiorare le cose. Non c’è da immaginarsi chissàcchè, fino agli ultimi minuti non succede nulla di eclatante, solo piccoli eventi ordinari che scavano un fossato di disagio un colpettino alla volta. Antoine mente, ruba e imbroglia, va al cinema e ruba le foto della protagonista di Monica e il desiderio di Bergman (che all’epoca non era il colosso da cineforum come lo vediamo oggi ma un regista giovane e innovativo, uno che girava film asciutti e audaci che se ne fregavano di tutte le convenzioni, che raccontava cose inusuali come la sete d’amore inappagato e trattava i sentimenti con uno stordimento tutto nuovo).

Non è una trama nel senso canonico del termine quella di I quattrocento colpi, sono momenti di vita, perchè quello che Truffaut voleva fare era cambiare la solita scansione narrativa, quella per la quale i personaggi sono funzionali all’azione, servono cioè a definire degli eventi. Ciò che invece piaceva a lui era rendere l’azione funzionale ai personaggi, cioè che quel che accade non abbia valore in sè ma serva a definire le persone coinvolte. Non una rapina, non un inseguimento, un triangolo amoroso o qualsiasi altra cosa che funzioni indipendentemente da chi coinvolge quanto eventi di piccola importanza che però sono interessanti nel momento in cui la persona coinvolta è il nostro protagonista. E lui il protagonista l’aveva previsto in ogni inquadratura, non si dà il film senza di lui.
Spostare di colpo l’attenzione dei film dagli eventi ai personaggi. Chi non ha mai visto un film simile ne viene impressionato ancora oggi per come sembri non parlare di niente eppure sia impossibile da dimenticare o anche solo da smettere di guardare. È capitato a me, che non avevo mai visto nulla di simile prima di I quattrocento colpi e capita ancora, tutti i giorni, che qualcuno lo trovi, forse, il più grande film di sempre.
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C’è un mistero incredibile in quest’opera e la sensazione è che si tratti di qualcosa di irripetibile, un film che non si può rifare, che lo stesso autore non avrebbe potuto riprodurre alla stessa maniera anche se avesse ricominciato la lavorazione subito dopo averlo terminato, tale è l’equilibrio tra realismo, improvvisazione, spontaneità ed esigenze personali. La storia e il personaggio infatti sono ispirati alla vera vita di Truffaut come a quella di Jean-Pierre Leaud (l’attore, scelto tra molti proprio perchè aveva vissuto come colui che interpreta), le scene erano poco più che abbozzate e di volta in volta si contrattava cosa dire e come farlo. Metodi per nulla convenzionali rispetto al cinema borioso che si faceva in Francia e che Truffaut odiava profondamente, che insultava e prendeva a male parole sulle riviste nelle quali scriveva. Lui voleva fare Rossellini, Bergman ma anche Nicholas Ray, voleva essere giovane e sfrontato, voleva fare film dove si fuma e si parla come nella vita vera, non assecondando le convenzioni delle sceneggiature. All’epoca lo definirono “semi-documentaristico”, ma sono cretinate, lo stile realista è fumo negli occhi, I quattrocento colpi ha sguardi in macchina e profonde forzature di linguaggio. Il punto è che a Truffaut faceva schifo il “cinema di papà”, gli adattamenti noiosi dei grandi romanzi tradizionali, le solite storie ripetute sempre uguali senza un vero perchè e senza voglia. Gli piacevano invece i polizieschi di serie B americani e quei pochi registi suoi connazionali che osavano rompere le regole, come Renoir o Vadim (“Il primo a piantare una macchina da presa sulla spiaggia!”), quelli che andavano a filmare lontano dai teatri di posa storie con personaggi estremi. Odiava così tanto il cinema che andava per la maggiore in patria che a screzio per tutti gli altri definì Abel Gance, immenso regista-avventuriero attivo più che altro ai tempi del muto e all’epoca 90enne: “Il più giovane regista di Francia”.

Voleva essere come i suoi miti: moderno, sincero, raccontare cose vere e stare attaccato a personaggi che dicessero qualcosa allo spettatore di quegli anni in storie che nessuno aveva il coraggio di affrontare. Il risultato è un film che parla a tutti in tutte le epoche, che è sfrontato anche oggi, che rompe le strutture canoniche anche dopo 55 anni, qualcosa di imprevedibile e imprevisto, con alcuni tra i momenti più autentici e onesti di sempre, attimi in cui la compenetrazione e la comprensione del personaggio sono tali che anche le delusioni più piccole pare di viverle sulla propria pelle, un film di fronte al quale si rimane disarmati e smarriti per come sembri riuscire a raccontare quel che ognuno ha dentro.
Per essere il film più grande di sempre forse quel che serve è proprio questo: una chirurgia sentimentale talmente precisa ed inesorabile che per stimolare un’emozione non è necessario scrivere eventi sconvolgenti, basta un’identificazione tale da commuovere anche per uno schiaffo, un appuntamento mancato o anche una corsa senza senso verso il mare. Il finale più bello di sempre.

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A me I quattrocento colpi ha rovinato la vita, mi ha costretto a prendere atto che il cinema può fare altre cose. Ha fatto odiare anche a me quel cinema borioso e inutile che si è sempre fatto e si fa tutt’oggi, mi ha messo di fronte all’esigenza di pretendere dai film che siano sempre audaci e sfrontati, che parlino alle persone, che osino e siano moderni, in ogni epoca.
Magari se lo andate a vedere la vita ve la rovina anche a voi.