Tra le nomination agli Oscar 2015 nella categoria Miglior animazione le sorprese sono state due. La prima è stata l’esclusione di The Lego Movie, la seconda l’inclusione di La principessa splendente, lungometraggio di Isaho Takahata già passato alla Quinzaine di Cannes e tra i più particolari dell’autore, uno dei pochi ad aver ricevuto una distribuzione in Italia.

Le speranze di vittoria della statuetta non sono molte ma la menzione tra i candidati è già di per sè una buona ragione per recuperare questo film particolare e fuori da ogni canone. Noi, come al solito, abbiamo sentito Gualtiero Cannarsi, responsabile dell’adattamento italiano di tutto quel che riguarda lo studio Ghibli e attualmente al lavoro sulla nuova versione di Nausicaä della Valle del Vento, che arriverà al cinema quest’anno.

Il film ha un andamento da favola tradizionale anche se l’ispirazione non è una favola come la intendiamo noi ma un racconto classico. Questo ha influito nell’adattamento? C’era un registro particolare di giapponese?

Nell’originale ci sono “molti registri” linguistici diversi. In primis, le parti del narratore sono state preso di peso, pari pari, dal testo originale letterario del “Taketori Monogatari”, risalente all’anno 1000. Si tratta praticamente della più antica narrativa scritta in giapponese ad essere attestata! Come si può immaginare, la lingua è non antica, ma proprio arcaica: per intenderci, in giapponese esistono versioni “parafrasate in lingua contemporanea” del testo originale. Del resto, se pensiamo all’Italia, tornando all’anno 1000 saremmo ben tre secoli prima anche di Dante e Petrarca! Tuttavia, benché così “arcaica”, la lingua dell’originale “Taketori Monogatari” non pare “colta” in senso stretto; la sensazione, con le dovute differenze, è piuttosto quella di cultura popolare arcaica. Quindi per rendere questo tipo di registro non mi sono rivolto a un italiano particolarmente elevato o ricercato nel lessico, quanto a un certo tipo di struttura sintattica, un periodare che avesse un sapore di antico ma semplice. Piuttosto che ai nostri grandi letterari del passato, mi sono un po’ ispirato alla prosa di Giorgio Vasari, in effetti. Questo sempre solo come referente mentale, si badi bene: ovviamente il testo adattato in italiano deve restare sempre fedelissimo al giapponese. Ma all’esatto opposto di questa semplicità, fatta di frasi brevi e concise, molto lineari ed essenziali, taluni personaggi del film si trovano a parlare un giapponese aulico e antico tipico della corte imperiale dell’epoca Heian. Si tratta di una lingua molto, molto strutturata, involuta, caratterizzata da una gran dovizia di fraseologie appunto “cortesi”. Tuttavia, questa lingua neppure appartiene indistintamente a tutti i personaggi, ma al contrario ne caratterizza in maniera funzionale e del tutto centrale solo taluni, oppure solo talune situazioni in cui si trovano. Per esempio, il padre della futura Principessa Splendente, un umile tagliatore di bambù, trasferitosi presso la capitale si sforza moltissimo di parlare da persona di alto lignaggio, spesso incespicando nel pronunciare frasi complicate e per lui innaturali, per l’ilarità della figlioletta. Sicuramente mantenere tutti questi diversi registri linguistici, ovvero non perdere la loro reciproca diversità, è stato ed è un elemento strutturale e cardine del film.

La principessa Kaguya ha alcune svolte che a paiono strane se non inattese a chi è abituato ai racconti occidentali, come l’introduzione ad un certo punto di una divinità. È qualcosa di tipico nella narrativa nipponica?

La divinità è presente in molti modi e molte forme in tutta la tradizione culturale giapponese, tuttavia non mi ritengo sufficientemente ferrato in letteratura orientale per rispondere esaustivamente a questa risposta nello specifico. Mi viene però da ricordare che nella nostra letteratura classica, latina come greca, vedere delle divinità combattere contro o a fianco di esseri umani, oppure innamorarsi e accoppiarsi con essi dando poi nascita a semidività di sorta, fosse pressoché la norma. Anche nel romanzo cortese di tradizione carolingia il concetto di divinità (ovviamente cristiana) è ben presente, fino ad arrivare all’Orlando di Ariosto, dove ci si spinge sin proprio sulla Luna a recuperare il senno perduto, se ben ricordo. Del resto, quella letteratura è anche piena di armi mistiche in cui sono incastonati frammenti di divinità (viene in mente la Joyeuse di Charlemagne). Allo stesso modo, nella letteratura Norrena la divinità è sempre presente, e così la semidivinità. E anche nel ciclo bretone, tutto sommato, non è che manchi del tutto. Onestamente, tutte queste presenze deistiche mi paiono ben superiori a quella che è in “La storia della Principessa Splendende”, dove la comparsa innominata di un Buddha non è altro che il simbolo del ritorno alla “vita pura di puro spirito” che è la non-vita dopo la morte, anche questo un tratto comune a molte religioni, filosofie, scuole di pensiero.

 

kaguya 2

Nel film ci sono molti epiteti, ovvero l’uso di una locuzione al posto di un nome o associata ad un nome per identificare un personaggio (com’era anche per “la principessa spettro” in Mononoke). Si tratta di una soluzione di adattamento oppure effettivamente sono tali anche nell’edizione originale?

L’adattamento non deve aggiungere mai nulla. Certamente l’uso di apposizioni caratterizzanti nei nomi è effettivamente tipico della lingua giapponese, ma anche questo tratto non mi pare alieno alla nostra lingua. Anche noi parliamo del Dottor Tizio, o del Professor Caio, dell’Onorevole Pinco, o del Reverendo Pallino. Se non erro, la grammatica italiana ne prevede anche l’uso con capolettera maiuscolo. La mia impressione, piuttosto, è che gli italiani nel loro provincialismo proprio non si rendano conto di quanto “etnica”, corporativistica e servilistica sia la nostra propria cultura, dove per scrivere a un rettore di università si vorrebbe riferirsi a lui come “Chiarissimo Rettore”, dove si usa regolarmente l’apposizione professionale di Ing. Dott. Avv. Cav. e quant’altro. E parliamo di oggi, non dell’anno 1000. Certo tutte le lingue hanno e hanno avuto i loro modi di cortesia, solo che tipicamente le persone non avvertono la presenza dei propri, ma si sorprendono alla presenza di quelli degli altri, come se la loro esistenza fosse una novità.

Una volta tanto pare che Takahata abbia fatto un film per il piacere di creare qualcosa che fosse poi disegnato e animato in maniera particolare e leggera (almeno all’occhio dello spettatore), hai avuto quest’impressione di leggerezza anche nella parte scritta?

L’intento dichiarato del regista è stato quello di raccontare visivamente questa storia con uno stile grafico che inducesse un grande sforzo immaginifico da parte del pubblico pubblico, così da favorire una sua maggiore immersione sensoriale nelle scene. L’uso di ‘schizzi animati’ -se così vogliamo dire-, oltre a essere qualcosa di tecnicamente difficilissimo e artisticamente ammirevole, è volto a presentare al pubblico una visuale essenziale, incisiva, con una componente di “non finito” che sta quindi all’inconscio immaginifico del pubblico stesso completare. Si tratta a mio dire di una tecnica formidabile. Leggendo la descrizione di un paesaggio contenuta in un libro fantasy, ad esempio, per quanto questa possa essere dettagliata, sarà la nostra mente a dover “creare” nella nostra mente l’effettiva visone di quanto descritto sulla pagina del libro, giusto? Questo è un processo mentale attivo. In un’opera audiovisiva del tutto definita, invece, la fruizione è totalmente passiva: tutto è completamente visibile, già immaginano e messo lì soltanto da ammirare. Con questo film, invece, mi pare si sia come trovata una via di mezzo: la scena è disegnata, ma in uno stile sufficientemente abbozzato per costringere l’inconscio dello spettatore a “riempire gli spazi bianchi”. Ne risulta una visione meno passiva, più personalmente attiva. Ed è meraviglioso, perché il livello di immedesimazione che ne discende sembra poterci quasi far percepire il tepore del sole, il profumo della primavere, il freddo umido dell’inverno innevato. Un’esperienza che, personalmente, non avevo mai provato al cinema. Generata per mezzo di una mera scelta artistica. In barba alle sempre più ardite soluzioni tecnologiche di visione immersiva nelle sale cinematografiche.