[Berlino 2014] Boyhood, la recensione

Un film che ricorderemo a lungo quello di Linklater e che ridefinisce molto di ciò che credevamo di conoscere sul cinema e sui period movie. Un esperimento poco ripetibile ma indimenticabile...

Critico e giornalista cinematografico


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Boyhood non è un film normale e dalla sua peculiarietà non si può prescindere. Nel senso che non è stato realizzato normalmente e il suo strano processo produttivo ha influito (e per fortuna) sul risultato finale, rendendo quella che è una storia comune, un film unico e mai visto prima.

Richard Linklater ha girato solo alcune scene ogni anno per 12 anni. Dal 2002 ha richiamato ogni 12 mesi gli attori del cast a lavorare sul film, in modo che invecchiassero realmente lungo lo scorrere di una storia che quindi doveva per forza riguardare lo scorrere del tempo (altrimenti come usare scene brevi girate una l'anno per 12 anni?).

Partendo da questo presupposto la storia di Boyhood è la più canonica tra quelle di formazione personale negli anni del titolo, quelli più o meno tra gli 8 e i 20, e fa leva sui sentimenti e sulla rievocazione del periodo dal 2002 al 2014, attraverso musica, tecnologia, fatti d'attualità e moda.

Eppure nonostante uno svolgimento che conosciamo bene il racconto della vita di Mason tra gli 8 e i 20 anni, di sua sorella Samantha di poco più grande, della mamma Olivia, separatasi quasi subito aver avuto i bambini dal padre Mason Sr. e poi dei molti altri mariti che si susseguono, degli amici, dei cretini che li circondano, degli amori e di chi li aiuta, ha una forza che fino a oggi era sconosciuta al cinema, in virtù di una componente che è propria dell'esistenza reale: l'evidenza dello scorrere del tempo sui volti e sui corpi.

Non c'è trucco invecchiante o ringiovanente (sia analogico che digitale) che non sia suonato falso, non c'è attore chiamato ad interpretare un personaggio da adulto che non fosse comunque diverso da quello che lo interpretava da piccolo e non c'è crescita che non suonasse falsa, lo capiamo tutto insieme adesso che esiste Boyhood e abbiamo visto Mason cambiare di pochissimo in ogni scena e poi magari di molto in un'altra, a seconda delle età, ora che abbiamo visto Ethan Hawke 32 all'inizio e 44enne bolso alla fine e via dicendo.
L'effetto del passare del tempo sui corpi, in un film che si fonda esattamente sul racconto di un brandello di vita fatto quanto più da vicino e quanto più minuziosamente possibile (sebbene procedendo per ellissi annuali), pare ora una condizione a cui si dovrebbero conformare tutti.

Ed è incredibile quanto Linklater, sebbene già avesse legato il suo nome a progetti a lungo raggio (vedi Prima dell'alba, Prima del tramonto e Before Midnight), riesca in Boyhood a fare qualcosa di completamente differente. Non un racconto generazionale portato avanti per decenni in cui i protagonisti invecchiano assieme al pubblico ma uno tradizionale in cui il tempo si contrae nella durata del film. Per quanto possa sembrare paradossale Boyhood è un film narrato in maniera decisamente più convenzionale rispetto alla trilogia di Jesse e Celine, ma è come se avesse una componente in più che gli altri period movie o film di formazione non hanno: per l'appunto il potersi fondare sui corpi che mutano.

Per questo è evidente come sia esso stesso un film sul "cambiare", un'unica grande esaltazione della crescita negli anni della boyhood ma anche del mutamento umano in generale (come inizia e come finisce il personaggio di Ethan Hawke, e quanto non cambi il suo rapporto con Mason, è forse la cosa più commovente).

Unica concessione alla modernità del racconto è il fatto di non fondarsi sulla rappresentazione di una serie di momenti topici o decisioni difficili da prendere ma di voler affrontare il vivere attraverso i momenti più convenzionali e dimenticabili, come se Linklater fosse convinto che è la quotidianità a svelare quel che siamo in ogni momento e non l'eccezionalità.

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