Sono passati dieci anni da quando l’Italia ebbe la fortuna di vedere in anteprima mondiale, con due giorni di anticipo sul resto del mondo, Harry Potter e i doni della morte – Parte 2, un film che definire “l’attesissima conclusione di una delle saghe di maggior successo di sempre” è eufemistico. Da allora, da quando abbiamo detto addio al mago con gli occhiali pensando (ma credendoci molto poco) che le nostre avventure a Hogwarts e dintorni fossero finite per sempre, sono successe parecchie cose; nel franchise, con altri due film giganteschi usciti al cinema per espandere l’universo e la mitologia di Harry Potter, e anche al di fuori, con i parchi a tema e con tutte le polemiche che hanno travolto J.K. Rowling per un miliardo di motivi diversi, dalla sua tendenza a correggere in corsa e modificare retroattivamente dettagli dei suoi romanzi a certe sue uscite ritenute da alcuni come transfobiche che hanno un po’ incrinato la sua immagine immacolata.

Ma non è di tutto questo che siamo qui a parlare, né è nostra intenzione rinfocolare una discussione che di certo non ha bisogno di noi per essere rinfocolata. Siamo qui per un altro motivo: celebrare, idealmente senza troppa nostalgia, ma potete immaginare come non sia facilissimo, il decimo compleanno dell’ottavo film della saga nonché tredicesimo maggior incasso di tutti i tempi. E lo faremo con queste dieci… cose che ci sono venute in mente riguardandolo. Cominciamo dalla prima, forse la più importante.

 

Drago

 

1) La distruzione è un atto creativo. L’ha detto Giorgio Chiellini ed è la filosofia con cui David Yates ha affrontato un film che racconta la fine di un mondo e l’inizio della ricostruzione dalle sue macerie. Harry Potter e i doni della morte – Parte 2 è un addio prolungato e ininterrotto a tutti quei luoghi, e in certi casi personaggi, che abbiamo imparato ad amare nei sette film precedenti. Che qui vengono invasi, demoliti, rasi al suolo, dati alle fiamme, ci vengono mostrati, insomma, non nella loro condizione naturale ma nel bel mezzo di una guerra.  Parliamo di Hogwarts, ovviamente, dove si svolge gran parte del film, ma anche della Gringott, e ovviamente di tutti quei volti ai quali volevamo bene e ai quali, come in ogni battaglia finale che si rispetti, dobbiamo dire addio.

2) Una gateway drug per Il signore degli anelli. Harry Potter, più ancora dei film di Peter Jackson, ebbe il merito di far avvicinare al fantasy anche gente alla quale del fantasy non interessava per nulla – un po’ come stava per succedere con Game of Thrones. I doni della morte – Parte 2, come anche la prima parte in effetti, è un addio definitivo alle atmosfere potteriane e un modo per abbracciare definitivamente l’epica della guerra, del sacrificio per un bene superiore, del mondo in rovina; è un film tolkieniano, più ancora di quanto lo fosse il romanzo da cui è tratto, e probabilmente ha convinto un po’ di gente scettica a fare un salto anche nella Terra di mezzo.

 

Army

 

3) Una valanga di mazzate. IDDM2 (I doni della morte – Parte 2, nel caso non fosse chiaro) è senza alcun dubbio il film meno parlato e più ritmato dell’intera saga. O, se preferite, è un film che non sta fermo un secondo, e che mette in fila una quantità sinceramente impressionante di scene d’azione e di cose che si sfasciano. È come se, di fronte alla prospettiva della battaglia finale, la produzione avesse finalmente deciso di dare il permesso di aprire tutto: giganti contro statue animate di pietra? Fate pure. Ghermidori fritti vivi da una barriera magica? Prego. Ponti che crollano, mura che collassano, primi piani di cadaveri insanguinati? Non vi diremo di no.

4) La differenza tra film cupo e film buio. Il più grosso difetto di Harry Potter e i doni della morte – Parte 2 è anche conseguenza diretta del fatto di essere l’unico film della saga convertito in 3D: il risultato è buio, non “cupo” o “scuro” o “notturno”, semplicemente troppo buio, e a tratti incomprensibile, soprattutto durante le altrimenti spettacolari riprese aeree di Hogwarts assediata dall’esercito di Voldemort. Non c’è bisogno di rendere l’immagine illeggibile per far capire che il film sta virando in territori più dark del solito.

5) David Yates è ingiustamente odiato. È vero, gli manca il tocco personale di Cuaròn ma anche l’approccio fanciullesco di Chris Columbus, e Yates è stato spesso accusato di essere un mero esecutore, uno shooter senza personalità e troppo fedele all’ordine delle cose come previste dal testo originale. Ma è ingeneroso bocciare così anche il suo lavoro per IDDM2: soprattutto quando c’è da alzare il volume e fare casino, Yates si dimostra un regista più che discreto, con un ottimo occhio per la leggibilità dell’azione e un gusto anni Ottanta per one-liner e salvataggi dell’ultimo secondo.

 

Voldemort

 

6) Severus Piton è ingiustamente amato.  Scusate, questa è una considerazione dell’autore che richiederebbe lunghissime discussioni sulla figura del professore più odiato e poi amato dal fandom, e questo ci porterebbe fuori dal seminato e soprattutto riaprirebbe ferite che pensavamo ormai chiuse. Concentriamoci quindi su quanto Alan Rickman riesca sempre e comunque a spiccare come un fuoriclasse, anche in un film (e una saga) interpretato da gente che, dopo anni nello stesso ruolo, aveva finito per identificarsi con il proprio personaggio. E proprio riguardo a questo…

7) Che problemi avete con Daniel Radcliffe, Rupert Grint ed Emma Watson? D’accordo, possiamo discutere delle loro prove in qualcuno dei film precedenti, e anche delle loro scelte di carriera post-Potter, del loro talento e di quanto ne abbiano davvero, tutto quello che volete. Ma qui, dopo otto film nei panni degli stessi personaggi, dopo aver passato i migliori anni della loro vita nei panni di figure di finzione, è chiaro che non stanno neanche più recitando, ma stanno essendo Harry, Hermione e Ron. E sono quindi, per definizione, perfetti.

8) La battaglia finale funziona meglio che nel romanzo. In parte per quanto dicevamo sopra su Yates e sulla messa in scena, in parte perché i romanzi scritti da JKR sono andati incontro (a distanza di anni possiamo dirlo senza preoccuparci troppo delle conseguenze) a un notevole calo qualitativo dal punto di vista stilistico, che è andato in parallelo, ma all’opposto, con l’incedere della storia e l’esplosione della mitologia. La misura perfetta in questo senso è stata raggiunta nel quinto romanzo, L’ordine della fenice, mentre i successivi diventano gradualmente più densi di spunti, idee, direzioni narrative e soluzioni originali, e contemporaneamente peggiorano a livello di scrittura; per cui l’impatto della battaglia di Hogwarts è parzialmente attutito dal fatto che quei capitoli avrebbero beneficiato di una seconda passata di editing – quella che non serve invece al film di Yates.

 

Apple Store

 

9) Il finale nell’Apple Store invece no. Il limbo nel quale Harry incontra Silente per un’ultima volta funzionava molto meglio su carta, perché era descritto come un luogo non descritto e lasciava quindi spazio all’immaginazione. Il salto dalla pagina al grande schermo, purtroppo, obbliga a fare scelte estetiche e a cristallizzare un non-luogo in un’immagine precisa – e quella scelta da Yates e compagnia è tremendamente pacchiana, oltre che fuori posto (il suo vero posto sarebbe dentro Matrix). L’impatto della scena tutto sommato non cambia perché è uno dei momenti decisivi di un percorso durato otto film, ma l’impressione nel 2021 è che si potesse fare di meglio che copiare i keynote di Tim Cook.

10) Siamo tutti Minerva McGonagall. “I’ve always wanted to use that spell!”.

 

 

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