Nope nasce da una reazione. La presa di consapevolezza che la violenza raccontata nei media e da loro cercata è sempre di più quella a danno delle minoranze. È un cinema post George Floyd che trae linfa vitale dai traumi collettivi dei filmati dei pestaggi passati nei notiziari. Quando finisce la giustizia e inizia lo sfruttamento dell’immagine della vittima per fare audience? È exploitation della violenza o la forza del reale che si impone?

Guidato da queste domande Nope è un film che ama e odia il cinema proprio per questa contraddizione. Perché l’immagine non è mai neutra. Può informare, rivelare una realtà non vista. Può altresì indicare una conclusione saltando il percorso logico. Le emozioni che suscita una fotografia sono una parte di quello che è accaduto realmente. Un istante catturato nel tempo che non tiene conto del prima, del dopo, e di ciò che c’è intorno.

Così Jordan Peele fa combattere i suoi eroi non con le armi ma con le cineprese. Perché Nope è la storia dell’ossessione sul gesto cinematografico di cattura dell’immagine perfetta. Quella che i cineasti credono possa cambiare la storia e che altri venerano come un feticcio.

Siamo ad Agua Dulce, ai margini della città delle stelle. Lì la voglia di spettacolo emanata da Los Angeles continua anche nel nulla più totale del deserto. Nel silenzio si ascoltano le voci delle rappresentazioni messe in piedi da Jupe Park. Piccoli nichelodeon amatoriali per osservare meraviglie. Gli Haywood da comparse si preparano a diventare protagonisti.

La storia del cinema in Nope

Prima che il cinema dei Lumiere portasse le immagini in movimento a una visione collettiva, ci furono alcuni esperimenti. Uno dei più noti è l’applicazione del pre cinema alla scienza fatta da Eadweard Muybridge. Il suo cavallo in movimento, girato nel 1878, fa parte di una serie di studi sulla cinetica dei corpi. Si conosce tutto di chi l’ha ripreso e del cavallo, nulla si sa del fantino, si dice nel film. Da questa premessa discende l’idea poetica di Nope, che è anche quella prevalente di Peele: raccontare le stesse storie di sempre (gli horror, i film sui doppi, la fantascienza) ma come se il cinema fosse finalmente di chi non ha mai potuto farlo. 

Così Nope insieme a Get Out e Noi sono opere di una sconvolgente originalità di pensiero. Dicono cose nuove sui neri in America, sul rimosso della società, sul cinema stesso. E lo fanno pur restando all’interno di frame di generi usati e abusati.

Si rivela che gli Haywood sono discendenti del fantino filmato da Muybridge. Hanno perciò un posto di diritto nella storia del cinema, ma non sanno che farsene. Inconsapevolmente il loro modo di pensare è quello dell’industria di cui sono convinti essere una parte marginale. Addestrano cavalli, restano ore davanti a schermi verdi, e quando incontrano il mistero della nuvola immobile nel loro cielo sanno immediatamente cosa fare: riprendere e vendere l’immagine per fare soldi e sbarcare il lunario.

keke palmer nope zendaya

Tutti i formati più uno

Così in Nope c’è la storia del cinema in avanti e indietro; progredisce e regredisce. Si arriva ad usare tutto a partire dalle videocamere di sorveglianza, con un’immagine onnicomprensiva e diffusa. L’interferenza elettromagnetica della creatura rende vano ogni tentativo di automazione dell’occhio dell’obiettivo. Forse aiutata anche dalla natura stessa che si mette di fronte all’obiettivo. Una grande intuizione la scena dell’insetto che impedisce la visione, creando una tensione non indifferente, in un film che poco dopo farà vedere tutto e di più. Si devono fare le cose a mano. L’uomo dietro la cinepresa non può (ancora) essere sostituito.

Antlers Holst costruisce così una cinepresa in pellicola rudimentale. Non ha bisogno di elettricità ma solo del movimento manuale. Un po’ come i primi dispositivi per filmare. In Nope compaiono poi le reflex digitali, le videocamere personali portatili, le webcam dei computer e persino fotografie ad uso turistico. 

C’è anche una cinepresa IMAX, affiancata agli altri sistemi più semplici (il protagonista non ha però – non a caso – un cellulare in grado di catturare filmati). Coerentemente, Nope è un film pensato per un’esperienza premium, proprio su quegli schermi enormi e avanguardistici in cui l’occhio è immerso nella luce dello schermo. L’ultima frontiera del cinema e, forse, il suo futuro.

È come se Jordan Peele raccontasse lo sviluppo tecnologico del cinema come una risposta all’ossessione dell’immagine perfetta. La realtà può essere raccontata in un fotogramma. Sarebbe però un uso banale, sprecato, dato che la realtà la viviamo quotidianamente. Il cinema horror, così come quello fantascientifico, hanno lo stesso fascino dell’impressionismo. La corrente mirava a raccontare l’esistente in una dimensione ulteriore che può essere catturata solo tramite la mediazione di una lente (come ad esempio un dettaglio microscopico o una stella non visibile ad occhio nudo). Peele fa lo stesso con le sue opere.

Nope

I problemi di questa ricerca visiva

Gli Haywood sono accerchiati proprio come se la loro casa fosse il set di un attesissimo film. Ci sono reporter indiscreti che entrano nel territorio con tutte le strumentazioni più all’avanguardia per scattare le fotografie. Nell’ultima scena, in cui la parabola eroica -tipicamente da film – di OJ si compie lasciandolo in un limbo tra apparizione di un eroe del passato e un sopravvissuto, sullo sfondo si affannano i reporter.

Come in un set chiuso anche la casa Haywood deve fare i conti con gli occhi curiosi e indiscreti che potrebbero avere scattato dalla distanza di sicurezza immagini altrettanto valide. Rovinando così tutta la fatica fatta e, per estensione della metafora, vanificando il film.

Se quindi Nope racconta le ossessioni di un regista alla ricerca del suo film, c’è anche un altro tema che emerge prepotentemente dalle persone che Peele prende come soggetti. Come notato dall’Hollywood Reporter il film accusa il tokenismo. Cioè la tendenza dei gruppi maggioritari a coinvolgere al loro interno persone appartenenti a minoranze per dare l’apparenza di inclusività. In realtà è solo una parvenza di ricompensa non sufficiente, un gettone (token) che non risolve il problema. Nel cinema e nella televisione lo si è vede quando alle minoranze vengono assegnati piccoli ruoli trascurabili in opere ancora totalmente a maggioranza bianca. 

Jupe era uno di quelli. Bambino asioamericano esibito nella sua tenera diversità pur senza avere un ruolo importante nella sitcom in cui recitava. Non a caso tra lui e Gordy, lo scimpanzè, si instaura uno stretto legame da emarginati (o questo lui crede). 

Anche gli Haywood hanno la loro piccola e insufficiente parte. Sono ai margini dell’industria del cinema, tollerati per il loro passato e per il lavoro del padre defunto. La sua morte è misteriosa e avviene, non a caso, proprio a causa di un piccolo token, una monetina che l’ha trafitto.

L’invito di Nope non riguarda quindi tutti gli spettatori, ma solo quelli isolati nelle periferie sociali. È una presa di consapevolezza dei debiti della storia e un incoraggiamento a uscire dalla propria marginalità, rischiare, prendersi con la forza il proprio diritto a essere rilevanti. È una lotta impari contro un mostro gigantesco, eppure proprio da quella creatura può venire il successo.

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