In attesa dell’uscita di Creed 3, il primo film della saga di Rocky Balboa senza Sylvester Stallone, facciamo un ripasso dell’intero franchise. Oggi arriviamo a Rocky V, dopodiché ci prendiamo una pausa natalizia e ricominciamo nel 2023 con Rocky Balboa

Per parlare di Rocky V faremo una cosa che probabilmente a Stallone darebbe fastidio ancora oggi (e che sicuramente gli avrebbe dato fastidio nel 1990): parleremo anche di Arnold Schwarzenegger. La rivalità tra i due, vera o presunta, ha caratterizzato il cinema e non solo degli anni Ottanta, e ancora oggi si discute con piglio accademico della questione: chi è meglio, l’androide Schwarzenegger, perfetto corpo da cinema addestrato da alcuni dei più grandi registi del mondo a fare anche l’attore, oppure l’autore Stallone, quello che si è fatto da solo e poi ha scalato le vette di Hollywood? Ovviamente non daremo una risposta, visto che “Stallone o Schwarzenegger” è l’equivalente cinematografico del sempiterno “vuoi più bene al papà o alla mamma?”, ma Rocky V è probabilmente il film che segna il momento del sorpasso (momentaneo?) di Schwarzy nei confronti di Sly.

Per capire il perché di questa affermazione basta guardare la data, e chi fosse seduto nello Studio Ovale. Rispettivamente: 1990 e George W. Bush, quello che voleva trasformare l’America in “una nazione più gentile”. Guardiamo poi ai film dei due attori usciti nell’intorno di Rocky V. Stallone veniva da Over the Top, Rambo III e Sorvegliato speciale; dopo Rocky V girerà Oscar – Un fidanzato per due figlie e Fermati, o mamma spara!. In altre parole, dopo aver provato a portare avanti l’immaginario stalloniano degli anni Ottanta, e dopo essersi reso conto che ormai l’America l’aveva superato per rivolgersi verso un altro tipo di approccio, Stallone tentò di cogliere lo spirito dell’epoca, fallendo (non necessariamente per colpa sua).

Talia

Schwarzenegger veniva invece da I gemelli e soprattutto, nell’anno di uscita di Rocky V, da Atto di forza, il film che, come vi spiegavamo qui, mise fine agli anni Ottanta, satirizzò l’allegra ultraviolenza degli anni di Reagan, e aprì la strada al postmodernismo, al meta-cinema e, tornando alla carriera di Schwarzy, a film come Last Action Hero e True Lies. In altre parole, dopo aver contribuito a creare l’immaginario action degli anni Ottanta, Schwarzenegger capì che il vento stava girando e lavorò per reimmaginare e ricostruire almeno in parte la sua immagine.

Proprio in mezzo a questo momento di svolta si colloca Rocky V, il film peggio recensito del franchise nonché quello che ha incassato di meno. Rocky V è il tentativo di Sylvester Stallone di tirare indietro le lancette dell’orologio, di fare finta che il cinema non stia cambiando e che sia possibile ricreare la magia del primo film semplicemente riportando Rocky Balboa alle sue origini e al suo quartiere. Ed è curioso che arrivi dopo Rocky IV, che al contrario aveva dimostrato che Stallone sapeva anche essere autoironico e satirico, e in grado di abbracciare certi eccessi senza vergogna.

Allena

Dopo aver risolto la Guerra Fredda a pugni, a Rocky Balboa non rimane molto da fare, almeno da un punto di vista narrativo: come si fa a superare Ivan Drago e il combattimento a Mosca davanti all’intero stato maggiore dell’Unione Sovietica? Stallone decide quindi di usare un trucco che segnala anche la sua volontà di staccare la spina al personaggio: Rocky V prende il signor Balboa e lo resetta, lo azzera, mette in chiaro che non tornerà più sul ring a combattere perché anche un singolo pugno nel punto sbagliato potrebbe rivelarsi fatale. E se togli il ring a Rocky, che cosa gli rimane?

“Nulla”, è la risposta, visto che in uno degli snodi di trama più improbabili e ridicoli dell’intero franchise scopriamo anche che Paulie, il povero Paulie, ha fatto un errore di valutazione e firmato il documento sbagliato: la famiglia Balboa si ritrova di colpo senza una fonte di reddito e soprattutto senza soldi, e deve abbandonare il lusso nel quale viveva per tornare alle origini, al quartiere di Philadelphia dove Rocky e Adriana sono cresciuti e si sono innamorati. Questo non solo dà modo a Rocky di rendersi conto di quanta strada avesse fatto, e di odiare quindi la sua inattività forzata che gli impedisce di tornare alla sua nuova vita (“Ce ne siamo mai andati di qui?” chiede ad Adriana, che per arrotondare i conti di famiglia è tornata a lavorare nel vecchio negozio di animali), ma permette anche di introdurre il personaggio di “il figlio di Rocky”, e aggiungere quindi un’intera sottotrama adolescenziale interpretata con una certa rigidità dal figlio di Stallone, Sage.

Rocky V Stallino

La rimpatriata non si limita alla storia di Rocky V, per il quale Stallone volle a tutti i costi il ritorno di John G. Avildsen, che era reduce dal mezzo flop di un altro sequel, Karate Kid 3. C’è persino, in un flashback che scioglie il cuore, il ritorno di Burgess Meredith, a ribadire che il film è un ritorno alle origini, un modo per ripartire da zero e tornare a parlare di quei valori che avevano permesso a Rocky di ottenere il suo primo successo: dedizione, impegno, sprezzo del pericolo e del dolore, quella grande voglia di arrivare che ti fa superare ogni tuo limite. Niente di quanto scritto finora è un problema di per sé; il problema semmai è come Stallone decide di parlare di questi argomenti.

Al centro del film c’è il rapporto tra Rocky e Tommy Gunn, un lottatore di strada dell’Oklahoma che Rocky accoglie prima nella sua palestra (che è quella che era di Mickey, restaurata e rimessa in attività), poi nella sua famiglia, generando per altro la gelosia del figlio che si sente trascurato e dando quindi la stura ai suoi problemi da adolescente ribelle. Tommy Gunn dovrebbe essere, perdonate il gioco di parole, il Rocky di Rocky, e Rocky il Mickey di Tommy: impossibilitato a tornare a combattere, Balboa decide che l’unica soluzione per tornare a vivere certe emozioni è farlo per interposta persona.

Tommy

È uno spunto interessante, la cui potenza viene però smorzata dalla presenza di un’altra linea narrativa: quella che coinvolge Washington Duke (Richard Gant), promoter ispiratissimo a Don King che sogna di organizzare un combattimento per Rocky, e non vuole saperne di questa storia del ritiro. Duke si porta dietro anche un’altra fotocopia del passato, Union Cane (Michael Williams), cioè il Clubber Lang 2.0, stessa arroganza, stesso senso di superiorità, stesse identiche motivazioni per voler combattere contro Rocky.

Quello che nei film precedenti era il classico percorso di addestramento che portava Rocky al combattimento finale diventa, in Rocky V, un percorso a ostacoli, e non è un caso che il succitato c.f. non si svolga su un ring ma per strada, in mezzo alla folla, illegalmente, e che degeneri in una sorta di megarissa collettiva. È come se fin lì Stallone avesse buttato una serie di spunti contro il muro per scoprire quale rimanesse attaccato, e di fronte a un muro intonso avesse deciso di mandare tutto all’aria e di buttarla in caciara. Senza considerare peraltro che, arrivato al quinto film, riproporre certe scene non è più omaggio o tradizione ma pura e semplice coazione a ripetere.

Rocky V Tommy

Inquadrato nella cornice della carriera di Stallone, Rocky V suona come un tentativo un po’ disperato, e soprattutto malriuscito, di tenere in vita gli anni Ottanta e il cinema che lo aveva reso grande. Gli ci vorrà un attimo per riprendersi dallo shock e accettare definitivamente il salto, e il successo solo relativo (quando non flop) dei suoi film migliori degli anni successivi, Demolition Man e Dredd, non lo aiuterà. È l’inizio di anni relativamente bui per Stallone, dai quali uscirà solo nel 2006, indovinate grazie a chi?

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