Venezia 71 - Pasolini, la recensione [2]
Senza personalità e molto vittima del personaggio il Pasolini di Ferrara ha pochissimi guizzi e annega in un mare di noia
Fin dall'inizio ci sono delle scelte stranianti che si rivelano inaspettatamente vincenti: a cominciare dall'ambientazione tra moderno e passato, con vestiti, giornali, oggetti e dettagli d'epoca ma sfondi e città moderna (cioè il paesaggio) per finire con la lingua parlata, un misto di italiano e inglese in cui sembra che ogni attore usi la propria (il che significa che Willem Dafoe parla più che altro inglese e ogni tanto il suo italiano con accento americano). É il Ferrara migliore, quello che se ne frega di tutto, che segue quel che gli interessa e non teme di piegare le consuetudini del cinema, difatti sono le cose che funzionano di più e creano un ambiente unico.
Purtroppo però la maggior parte del film è fatta dal Ferrara peggiore, quello degli ultimi anni che invece alle convenzioni di un cinema di rapida fattura e ordinaria costruzione vuole sempre rispondere. Pasolini vaga per i suoi 30 minuti di durata come un viaggio (non era diverso in fondo Mary), un continuo spostarsi e avvicinarsi al momento della morte. Ma in questi spostamenti Ferrara segue il suo protagonista come un entomologo, annotando quel che accade e guardandolo arrivare alla spiaggia senza fare nulla, senza muovere un passo o smuovere un cuore, senza avere uno sguardo sugli eventi che suggerisca qualcosa di più di quel che vediamo.Totalmente vittima e soggetto al personaggio quando il film racconta Pasolini lo fa solo attraverso le sue parole oppure la ricostruzione delle scene del film mai realizzato (totalmente folle perchè girate senza stile e senza voglia, senza imitare per fortuna ma anche senza creare), mai attraverso Abel Ferrara.