Abbiamo chiesto a Netflix Italia cosa vogliono e cosa non vogliono nel campo unscripted tra documentari e programmi tv

Da quando esiste Netflix Italia sono cominciate ad uscire anche produzioni italiane unscripted sulla piattaforma. Docuserie fino ad ora, ma l’annuncio di Una semplice domanda, lo show di Alessandro Cattelan, è il primo di una serie di investimenti anche nei programmi più convenzionali. La mossa conferma il desiderio di Netflix di conquistare pubblici più ampi di quelli ai quali si è rivolto fino ad ora ed è molto coerente con la presentazione alla Festa del cinema di Roma di Stories Of A Generation, serie documentaria che nasce dal libro Sharing The Wisdom Of Time scritto da Papa Francesco con Padre Spadaro, un mosaico di storie da tutto il mondo e situazioni diverse cui il papa risponde come in un dialogo.

È qui che abbiamo incontrato Giovanni Bossetti, manager documentari e contenuti unscripted italiani di Netflix. Bossetti ha un passato nella produzione per Magnolia e Banijay ed è arrivato a Netflix Italia un anno e mezzo fa.

Lasciando per un momento da parte i documentari, qual è la produzione unscripted cui Netflix sta lavorando?

“Cerchiamo idee nuove e originali che possano inserirsi in un generi molto chiari e conosciuti, così che da essere intercettati facilmente dal pubblico. Non vogliamo reinventare la ruota, costruiamo su ciò che già esiste. Lo sforzo è cercare formati nuovi e fare qualcosa di originale come hanno fatto le altre divisioni nazionali di Netflix, penso ad esempio a Love Is Blind. Senza contare che abbiamo annunciato anche il programma di Cattelan, in qualche modo il racconto del reale vivrà sia delle serie doc sia di un racconto più simile e più vicino a cui siamo abituati.
Il minimo comun denominatore è parlare chiaramente al pubblico italiano. Siamo un paese che ha una forte tradizione di adattamento di format esistenti, pensa al recente passato della tv lineare a Masterchef o X-Factor, che poi con la bravura dei nostri produttori trovano la loro identità”.

I generi di cui parli quali sono?

“Reality e talent principalmente, quello è il mondo della non fiction. Sono solo i primi generi in cui ci concentriamo in questo momento di start-up”.

Netflix solo un pugno di anni fa era in opposizione alla tv generalista, proponeva serie che non avremmo mai visto sulle generaliste con toni diversi e rivolte a pubblici diversi che hanno voglia di qualcosa di più audace. Con questa proposta come contante di differenziarvi dalle generaliste?

“Non credo che quello che in questo genere sarà presente su Netflix sarà opposto o diversissimo da ciò che trovi sulla tv normale, è un’offerta come le altre e vogliamo lavorare su un tipo di linguaggio che il pubblico conosce e grazie al quale può entrare. Personalmente ho molta paura degli ibridi che devono essere diversi da tutto.
Nel complesso questo è un discorso che mi sta a cuore, a Netflix il punto è come maneggiamo formati noti e conosciuti. Prendi ad esempio il dating, un genere nato principalmente per un appuntamento settimanale con puntate autoconclusive e quindi giusto per la tv lineare. Ecco rilavorare quel genere per un servizio come Netflix vuol pensare a come rilasciamo noi il contenuto, tutto in una volta, e quindi come modificarlo per farlo funzionare lo stesso, rendendolo più orizzontale ad esempio. Ma se vuoi anche fare riferimento alle maniere in cui le serie scripted ingaggiano lo spettatore, interventi sul linguaggio proprio”.

Scusa così non finite a diventare una tv generalista?

“Non direi che andiamo nella direzione della tv generalista ma dei generi classici, quelli sì, quelli che hanno funzionato nell’ultimo periodo. Più in generale non so se ci sia il rischio di diventare generalisti. Il pubblico guarda i canali tutti insieme e noi non possiamo non prendere in considerazione cosa fanno gli altri. C’è un dialogo continuo tra contenuti non scripted, un osservarsi a vicenda. Se hai più di 200 milioni di abbonati non puoi pensare a creare un linguaggio tuo e stringerti su quello. La forza di Netflix è la possibilità di accostare titoli diversi, la varietà dell’offerta. In quella direzione credo che ci saranno ancora contenuti che tu chiami “di nicchia” vicino a cose più larghe e di facile ingresso”.

In un discorso che non è legato a questo, però in un certo senso lo è, alla Festa del cinema avete presentato Stories Of A Generation, in cui c’è Papa Francesco e che viene da un libro scritto da lui e padre Spadaro. Non la RAI il canale legata ai papi, ai santi e alla religione?

“La serie è nata con l’idea di dire “Proviamo a fare un prodotto documentaristico da quel libro” e per la possibilità di lavorare con un papa come Papa Francesco, proprio da lui fin dall’inizio è arrivata l’intenzione di come costruire la serie, non su di lui, non una che in qualche modo ha ambizioni educative, ma una in cui può raccontarsi assieme ad altre storie che raccogliamo. Quindi è una grande possibilità di storytelling. Capisco che gli indizi possono far pensare ad un prodotto religioso legato al papa ma le prime reazioni sono per fortuna state diverse”

Da come ne parli sembra che l’abbiate incontrato per discutere la produzione, è stato così?

“Abbiamo avuto la fortuna di intervistarlo due volte, lui fa da filo conduttore per le storie, nelle 4 puntate compare sempre all’inizio e tra una storia e l’altra e poi alla fine. Ma il nostro canale di comunicazione con lui è stato padre Antonio Spadaro, lui aveva ben chiare le intenzioni del papa”.

Dal punto di vista sia dei documentari sia dei programmi unscripted è chiaro che non chiudete le porte a nulla, e ogni idea buona è per l’appunto un’idea buona. Ma a cosa dite di no? Cosa non è un contenuto unscripted da Netflix?

“In questo momento per lo slate italiano nelle conversazioni con i produttori cerco di chiedergli storie che possano avere gambe per più puntate, molto spesso ci sono occasioni di racconti antologici o autoconclusivi e invece in questo momento per noi è importante concentrarci su racconti che abbiano un loro svolgimento, cerchiamo progetti che sanno seguire il tipo di racconto che fanno le serie scripted. La lunga serialità, anche se limited magari, in cui le vicende hanno il giusto spazio e approfondimento. Ci sono titoli bellissimi che mi hanno proposto ma non avevano questo passo e li abbiamo rifiutati.
Poi sia chiaro, tutto quello che dico è smentito da Netflix negli altri paesi, perché sperimentano cose diverse, io parlo solo per la prima fase italiana”.

L’arena per questi contenuti in Italia è diventata dura, le produzioni sanno che possono andare da voi o da Prime o da Sky e chissà quanti altri. Immagino non sia facile aggiudicarsi i prodotti migliori. Netflix cosa mette sul piatto più degli altri?

“È vero, viviamo di continui scambi con i prodotti che poi parlano anche con gli altri. Ed è una cosa che fa bene, sì crea molto e il buon lavoro di un concorrente ci aiuta a creare l’abitudine nello spettatore per generi o contenuti nuovi. Così è più facile creare la consapevolezza che i servizi di streaming possono offrire qualcosa di diverso nel settore dell’unscripted. Noi offriamo un tipo di relazione che ci piace stabilire con i nostri partner, la serie sul papa ne è una prova, abbiamo lavorato più di un anno gomito a gomito, cercando di mettere la produzione nelle condizioni migliori. Ovviamente non posso escludere che non accada con i nostri ottimi concorrenti eh. So che noi abbiamo una cultura trasversale, chi lavora con me poi passa al reparto comunicazione o marketing con una squadra che ha il medesimo approccio”

Sbaglio se dico che Sanpa è stata la vera svolta per i documentari di Netflix Italia?

“Di fatto è stata la prima docuserie italiana, è cominciato tutto da lì. E proprio l’attenzione alle docuserie è ciò che mi ha colpito di più da quando ho iniziato a lavorare qua.
Sanpa è stata una conferma importantissima per noi. Conferma che anche gli abbonati italiani hanno un appetito per i documentari seriali. In più ha confermato che una storia con al centro un personaggio carismatico, cioè con elementi che in qualsiasi genere e tipologia di racconto hanno un buon risultato, anche qui hanno successo. Chiaro che Sanpa trattava di storie con cui molti sono cresciuti, una parte della nostra storia recente, ma il tipo di risposta e conversazione che ha creato ci ha fatto capire la voglia che hanno gli abbonati italiani e che quel genere di storie può vivere oltre il contenuto stesso, cioè che da queste scaturiscono approfondimenti. Credo che questo debbano fare le docuserie, se rispondono a tutte le domande stanno sprecando un’opportunità, mi piace uscire con più dubbi di quando sono entrato, con più voglia di informarmi. È un lavoro in un certo senso opposto alle serie scripted”.

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