Narcos per Chris Brancato non è solo lo show che l’ha portato alla ribalta ma anche quello grazie al quale ha davvero capito cosa voglia fare e in cosa sia (a suo parere) davvero bravo: adattare resoconti giornalistici.

Nasce così, e con un paio di azzardi proposti all’interlocutore giusto (Netflix), Narcos, e così sembrano nascere tutti i suoi nuovi progetti, almeno stando a quello che ci ha raccontato a Roma, dove è venuto ospite del MIA, il mercato del cinema e della televisione che quest’anno precede di pochi giorni la Festa Del Cinema di Roma.

Brancato è creatore di Narcos insieme a Carlo Bernard e Doug Miro, lo coproduce e lo supervisiona. Soprattutto è l’uomo che ha avuto alcune delle idee più decisive per rendere questa serie quello che è diventato. Non solo un successo Netflix ma anche un motore per molti altri film e serie sulla sua scia.

Non si fa che parlare della libertà che danno i canali premium (quelli a pagamento) e Narcos ne è un buon esempio, ma secondo te è stato questo il segreto della sua ottima riuscita?

“Ci sono diverse libertà dentro Narcos che ne hanno determinato il successo.

La prima è aver deciso di girare tutto in Colombia. A qualsiasi network gigante l’avessi proposto mi avrebbero risposto che gli americani non guardano show girati all’estero, non lo fanno punto e basta. Netflix invece ha risposto: “Colombia?? Certo!”.

La seconda è stata la libertà di girarlo in spagnolo. Anche qui gliel’ho proposto e mi hanno risposto: “Fantastico!” e quando gli ho precisato che questo voleva dire che sarebbe stato almeno per il 30% in spagnolo mi hanno detto: “Ma perché non il 40% o il 50%?”. Io l’ho presa come un’incredibile affermazione di libertà creativa. Certo poi ho scoperto che stavano per aprire la divisione spagnola di Netflix, quindi magari quella era più un decisione presa in base al calcolo economico. [ride ndr]

Ad ogni modo la libertà che ci hanno dato si è tradotta in uno show con un look unico (perché non vedi mai serie ambientate a Medellin o a Bogotà) e poi l’uso del voice over i sottotitoli e il materiale di repertorio d’epoca… Tutto ha contribuito a quel feeling che ho sentito io stesso vedendo il pilot: “Bello o brutto, di certo è diverso!”. Mi ricordo che raccontavo agli amici che in universo di 100 canali forse essere diversi è importante tanto quanto essere una buona serie”.

Certo anche raccontare proprio Escobar si è rivelata un’idea così buona che moltissimi vi hanno seguito, negli ultimi 3 anni ho visto almeno 4 volte il discorso di Ronald e Nancy Reagan sulla droga in 4 produzioni diverse che avevano a che vedere con Escobar (Barry Seal, Loving Pablo, Narcos e Escobar)….

“Pensa che l’idea di usare quel video era mia ma il mio assistente mi ha proposto di fare in modo di associare Nancy Reagan che dice “Just say no” con una vittima che Pablo sta per uccidere e che urla “No! No!”.

La cosa forte credo sia che che sapevamo tutti che è esistito un certo Escobar che aveva a che fare con la cocaina, ma quasi nessuno sapeva bene tutta la storia e la grandezza delle proporzioni. Il merito vero va ad Eric Newman, lui da anni stava cercando di fare un film da quella storia, senza però riuscire a comprimerla bene in un film, allora l’ha venduta a Netflix per una serie, perché in 20 ore funzionava meglio”.

Hai visto alcuni di questi film?

“Ho visto solo quello con Benicio Del Toro e mi pare dimenticabile, però vorrei vedere quello con Tom Cruise che mi incuriosisce molto”.

Tu con la serie hai il vantaggio di avere molte ore a disposizione, loro con i film invece devono selezionare e raccontare qualcosa di molto specifico, non tutta la storia. Se tu fossi costretto a fare la stessa cosa, a raccontare Escobar in due ore, che punto di vista adotteresti, su cosa ti concentreresti?

“Così su due piedi credo che l’aspetto più interessante sia l’idea che quest’uomo trafficava con una sostanza che per lui non era diversa da birra o caffè. Per noi la cocaina è terribile ma per lui era un prodotto che l’ha arricchito e grazie al quale si è pure candidato al parlamento. Voleva essere accettato dall’elite che ovviamente non l’ha mai accettato e quando è stato cacciato dal parlamento in lui è scattato qualcosa, un odio per il potere così forte da portarlo a considerare un intero paese come il suo nemico. Un paese che aveva un esercito debole, credo avessero solo tre elicotteri, lui di certo poteva organizzare un’armata molto più potente. Insomma io mi concentrerei da questa rabbia che esce da un’indignazione quasi legittima”.

Loving Pablo, quello con Penelope Cruz e Javier Bardem è più o meno su questo… Ad ogni modo adesso le serie sono così tante da avere target molto specifici, ma secondo te cos’è che in questo momento va prodotto, cosa sta per esplodere?

“Se lo sapessi lo produrrei!” [ride ndr]

Non c’è qualcosa che hai visto che ti ha colpito?

“Fauda, la serie israeliana sui corpi arabi della polizia israeliana che si infiltrano tra i palestinesi. È la storia di questo infiltrato e della sua fratellanza, non ha niente di diverso dalle serie con poliziotti sotto copertura, ma quello che è fantastico è quel paesaggio. Sono interessato a vedere altri posti e altre storie in quei posti lì, ad esempio voglio vedere le serie italiane che ieri sera ho guardato agli upfront. Proporre uno show ad hollywood è più difficile che mai perché chiunque ha già sentito tutto. Qualche anno fa avrei potuto proporre una serie su due poliziotti che diventano piano piano matti e l’avrei venduta ma ora no, è stata fatta. Dunque ora cerco di trovare idee per rimettere in scena le solite idee”.

E con cosa te ne sei uscito allora?

“Ad esempio mi sono interessato alla storia di El Chapo, ma è la storia di qualsiasi altro spacciatore: ricchezza, donne, macchine, un passato povero… Sempre la stessa. Tuttavia El Chapo non è stato catturato dalla DEA o dai marine, ma perché stava mandando messaggi ad una donna che non era sua moglie. Ho scoperto allora che quel cartello usava i social media come una grande compagnia, ci facevano le PR della loro beneficienza, li usavano per intimidire, per mantenere i contatti… Quindi farei la storia su El Chapo nell’era dei social media, sarebbe una storia non tanto sulla droga ma su noi e la persona digitale che creiamo online con la quale vendiamo noi stessi. Quella è una storia! Perché non pensi mai ai trafficanti di droga e ai social media”.

La vedremo presto?

“No. Me l’aveva commissionata Discovery Channel, l’ho inventata e venduta a loro ma poi hanno deciso che non gli interessava più fare una serie sulla droga e quindi nonostante l’abbiano comprata non la produrranno. Gli ho risposto “Avrei preferito me l’aveste detto prima!”.”

Quindi ora a cosa ti stai dedicando?

“Ora sto lavorando ad un’altra serie chiamata The Godfather of Harlem, su un vero gangster afroamericano negli anni ‘60 amico di Malcolm X. Parla della collisione del mondo criminale con quello dei movimenti per la conquista dei diritti civili, in più c’è la guerra con la mafia bianca. È un po’ Il Trono di Spade, con tutte le tribù diverse a farsi la guerra ma a New York. Vorrei riuscire a parlare di razzismo e problemi di oggi nella gabbia del passato. Quasi un prequel di American Gangster, a fare il protagonista ho ottenuto Forest Whitaker, ma non so se qualcuno se la comprerà”.

Storie vere che sembrano fasulle, ne hai appena raccontate due e del resto pure Narcos lo è, perché vanno così tanto ora?

“Credo il pubblico sia interessato a cose che hanno una base reale. Con Narcos ho fatto interviste a persone che hanno lavorato per Escobar o che l’hanno cacciato, ho fatto tantissima ricerca e ho scoperto che per me il processo di trasformare il lato giornalistico in sceneggiatura è una grande soddisfazione e ho scoperto che sono più bravo a fare quello che a inventare da zero. Detto ciò ora sto scrivendo Sherlock 3, con Robert Downey Jr., ed è difficilissimo, non penso ad altro. Devo inventarmi le deduzioni tipo: “Ho notato dalla cenere sul tuo cappotto che hai fumato tabacco di quella marca…” e via dicendo”.

Pensi che queste storie sarebbero accettabili se non fossero vere? La gente ci crederebbe?

Non credo ma il bello è che se hanno una base vera non devi convincere nessuno. José Padilha [regista e co-produttore di Narcos ndr] spesso mi diceva di non cercare di spiegare perché la gente fa quel che fa, lui sostiene che la maniera in cui fa film è raccontare persone che rappresentano delle istituzioni e poi farli scontare. Ad esempio il poliziotto fascista è un poliziotto fascista perché lo è e basta, non perché la mamma non l’ha allattato, l’importante è farli scontrare. Questa idea mi ha davvero fatto muovere dalla classica mentalità hollywoodiana, forzandomi ad andare da altre parti”.

In America avete lo showrunner, in altri paesi invece le cose si fanno in maniera diversa, senza uno showrunner, e va bene lo stesso. Cosa pensi che cambi la presenza di una figura come quella nel prodotto finale?

“La fascinazione con lo showrunner è nata con Lost. Il termine lo usavamo anche prima ma è diventato mainstream con J. J. Abrams, che poi non lo era per niente su quella serie e lo sanno tutti ma lo stesso è rimasto questo mito. Queste serie sembravano avere un’impronta così personale (pensa ai Soprano) che tutti volevano sapere chi fosse responsabile di queste creazioni. Di solito in Europa questo responsabile è un produttore, invece in America tende ad essere uno sceneggiatore. L’importante però nella nuova serialità è che la serie risponda ad una visione singola, invece di multiple.

Del resto le serie di maggiore appeal sono quelle che in cui una o poche persone hanno tutto in mano e gli danno un tono specifico. È proprio diverso, non c’è nulla di male in una serie tipo CSI, né è facile da fare, ma è una formula. Un nuovo sceneggiatore se è bravo ci si può adattare più facilmente, invece serie come Narcos o I Soprano o Lost o Gomorra hanno un tono particolare e serve qualcuno che si assicuri che tutti i comparti lo rispettino in ogni episodio”.