Finita la seconda stagione di Christian, disponibile interamente su NOW, riflettiamo sul progetto creato da Roberto Saku Cinardi e diretto da Stefano Lodovichi.

La cultura italiana è fatta di tante storie, religiose e non, di parole venerate e di detti popolari pronunciati come assolute verità, di superstizioni e leggende. Nel cinema delle origini eravamo bravissimi a catturare questo spirito con la macchina da presa. Creavamo grandi peplum ed eroi indistruttibili, ci prodigavamo in narrazioni epiche; i Vangeli come fonte di ispirazione, la religiosità e il classicismo come presenza importante per giustificare il fantastico e il meraviglioso. Poi, con la fine della seconda guerra mondiale, la reazione è stata un ritorno al realismo. Via i simboli letterari, entrano i messaggi che vengono dalla vita vera. L’uomo comune prende il posto degli eroi. Certo, siamo poi tornati al fantastico, le rappresentazioni religiose non sono mai mancate, ma queste due anime sono restate per lo più distanti.

Alla ricerca di un nuovo sapore

Christian, la serie di Stefano Lodovichi, prova a inventarsi qualcosa di nuovo, tutto italiano. Lo fa meglio in questa seconda stagione rispetto alla prima. Il luogo è la periferia romana romanzata come un moderno villaggio isolato, il quartiere di Città-Palazzo. I comprimari hanno caratteri netti, da fiaba della buonanotte: l’avaro cinico, il diverso, il coatto, la bella misteriosa, la ragazza normale, il mago. E poi c’è Christian. L’eletto. Il Dio in terra, forse. 

Se si leggessero gli eventi di Christian in ordine cronologico senza vederli realizzati si sarebbe portati a credere che i confini di riferimento siano quelli del linguaggio del cinecomic (la serie è in effetti tratta dal fumetto Stigmate). Un uomo qualunque ha dei doni inaspettati, impara a controllarli, decide di usarli per il bene, si mette a combatte la dilagante criminalità locale, si illude che il suo cambiamento possa essere per sempre. Nuovi nemici sono pronti ad arrivare. 

Invece la serie usa una grammatica ben diversa: quella del film di mafia, in cui le ferite contano, la gente si fa male, e anche le cose incredibili vanno fatte nel silenzio perché portano conseguenze sociali. Qui lo spazio in cui si svolgono le cose è quasi più importante dei personaggi. Invece che conservare l’esistente, secondo un generico senso di giustizia, qui il (presunto) salvatore è un rivoluzionario.

Christian 2 serie

Credere in Christian

Come rendere credibile dei superpoteri quali la moltiplicazione degli oggetti, la guarigione e addirittura la risurrezione degli altri? In America sarebbero originati da qualche raggio cosmico. Ci si sarebbe affannati a una spiegazione pseudoscientifica. Qualcosa che sia minimamente plausibile. Perché invece i personaggi italiani possano credere, l’eroe deve essere iscritto nella cultura popolare, nei racconti che si tramandano di generazione in generazione. Si chiede un atto di fede. Praticamente: la religione cattolica. In questo modo non ci vuole tanto perché Christian possa diventare credibile agli occhi dei cittadini di Città-Palazzo e al pubblico. C’è un precedente illustre!

Di preti, frati e suore con un piglio in più rispetto alle normali persone (eppure sempre uomini e donne di popolo) è piena la fiction italiana. Don Matteo ed emuli tentano questa fusione tra l’aspetto devozionale “pop” e l’intrattenimento di genere, senza voler sviluppare realmente né il primo né il secondo. Ibridi ben in equilibrio per una visione discreta e di accompagnamento.

Basta vedere il volto di Edoardo Pesce contrapposto alla sottile mostruosità di Claudio Santamaria per capire che la serie invece vuole abbattere la porta, non bussare delicatamente. Si immerge completamente nel misticismo, tocca i massimi sistemi, è diretto senza compromessi. Ci sono due fazioni che sarebbero nettamente divise. Bene e male. Ben più difficile capire quali siano gli esponenti delle rispettive azioni. La religione permette di costruire un mondo ben più grande di Città-Castello. Fa bene al budget ed è efficace per dare peso a quello che accade. La guerra in piccolo avrà conseguenze su scala globale. Si scriveranno testi sacri su queste gesta. 

Il linguaggio del realismo è fatto di inquadrature lunghe, fotografia pastosa e scura, di dialetti che sporcano i dialoghi. C’è sangue (ma non troppo), insieme a parolacce e peccati che tolgono ogni possibile fraintendimento: questa non è una parabola. Christian non ha niente da insegnare. 

Si potrebbe così chiamare “realismo mistico” (più propensa sul devozionale rispetto al realismo magico) questa atmosfera sospesa ed estrema da entrambi i lati dell’ossimoro. Radicata a terra, eppure soprannaturale. Botte, parolacce e preghiere. È ciò che si spera riuscirà a restare di più di una serie non certo esente da lungaggini e cali di attenzione, ma che ha puntato tutto sul creare un sapore nuovo riuscendoci in gran parte. Ora, come il suo personaggio, non le resta che cercare qualche discepolo o, per meglio dire, qualche emule che porti avanti questa idea audiovisiva.