Il nostro ricordo del fondatore di Apple a un anno dalla morte…

Un anno fa, qui a Bruxelles, era una mattina simile a quella di oggi. Grigia, piovosa e fredda, di quel freddo belga che unisce i rigori del nord con l’umido dei porti baltici. Un anno fa, avviando come tutte le mattine il mio iPhone, capii subito che non era un giorno come gli altri.

Un anno fa.

Oggi ho ancora in tasca lo stesso iPhone, ma molte cose sono cambiate, Apple, sotto la guida di Tim Cook è uscita dall’adolescenza e si avvia a diventare la più importante corporation tecnologica d’america (e dunque del mondo), mentre il mito della Silicon Valley declina e il vento dell’innovazione si scontra con la peggior crisi economica della storia moderna. A 365 giorni da quel cinque ottobre 2011, noi, che della tecnologia abbiamo fatto un lavoro e ci muoviamo ogni giorno nel mondo multicolore dello show business, siamo ancora orfani. Orfani di una visione, orfani di una persona che, insieme al suo coetaneo Bill Gates ha saputo, anche nei suoi errori, plasmare la più grande fabbrica di idee, sogni e innovazione che l’umanità abbia mai conosciuto. Jobs amava dire che “Apple si pone all’incrocio fra tecnologia e arte” e, non a caso, tutta la sua vita si è sempre mossa fra gli estremi, cercando, spesso con fatica titanica, un equilibrio fra l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Ragazzo prodigio e miliardario a vent’anni, Jobs ha provato sia l’estrema povertà di quando raccoglieva mele nelle farm californiane per pagarsi l’affitto, sia l’adrenalina delle copertine del Time e i lustrini patinati del suo fidanzamento con Joan Baez. Tutto in Jobs fu larger than life, a partire dalla sua travagliatissima storia personale, fino al gigantismo quasi prometeico con cui per due volte ha rifondato la stessa azienda e per due volte si è imposto in un mondo che lo considerava già sconfitto.

Nonostante tutto questo, però, dopo centinaia di libri, una biografia ufficiale, un paio di film in lavorazione e una serie pressoché infinita di articoli, rispondere alla domanda “chi era Steve Jobs?” rimane difficilissimo, se non impossibile. Genio illuminato o abile manipolatore? Arrogante egocentrico o leader carismatico? Steve Jobs altro non era che il più visibile figlio della sua epoca, quegli anni ‘70 che, insieme alla rivoluzione informatica, ci hanno regalato anche il cinema di Spielberg, Coppola e Scorsese, così come la musica dei Rolling Stones e dei Pink Floyd. Il fondatore di Apple, come tutti questi personaggi, altro non era che l’espressione della prima generazione cresciuta davvero in un mondo “interconnesso”, dove il sincretismo culturale e la commisitione fra cultura pop e conoscenza alta hanno risvegliato un potenziale creativo ed umano fino a pochi anni prima inimmaginabile. L’ossessione di Jobs per il design, così come la sua mania di controllare ogni più piccolo dettaglio dell’esperienza utente derivavano sia dal suo essere un egocentrico ma, soprattutto, dall’idea che, nel mondo moderno, la ricerca della bellezza fosse quasi un imperativo categorico. Come se limitarsi al brutto e al mediocre fosse ormai un delitto in un’epoca che permetteva all’uomo di andare sulla Luna e al muro di Berlino di crollare.

Jobs era esattamente questo: una persona che non si è mai rassegnata, che non ha mai accettato la dittatura del quieto vivere. Apple, al di la di ogni considerazione commerciale, ha avuto e ha ancora un grande pregio: quello di educare anche il più medio dei consumatori al bello, al fatto che estetica e funzionalità vanno di pari passo, al minimalismo inteso non come limite, ma come obiettivo ultimo di semplicità e chiarezza.
Fra i tanti epigoni di Steve che, nell’ultimo anno, hanno tentato di reclamare la sua eredità nessuno è riuscito a convincere fino in fondo. Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, Jack Dorsey, tutti grandissimi imprenditori, ma nessuno di loro ha la stessa scintilla che ha animato Jobs. Il fondatore di Apple, nel costruire la sua azienda e il suo personaggio ha accettato fin da giovanissimo la solitudine del potere, l’ossessione di non potersi permettere di essere “come gli altri”, perché uniformarsi avrebbe voluto dire perdere la propria unicità.

E così, un anno dopo quel cinque ottobre, è di nuovo una mattina grigia, piovosa e fredda. Una mattina che, forse, non è mai finita. Così, mentre aspetto il sole del pomeriggio, ripenso al discorso di Stanford:

La morte è la più grande invenzione della vita… spazza via il vecchio per far posto al nuovo…

Siamo ancora tutti affamati, siamo ancora tutti folli. Ma pure un po’ più soli.