Trasandato e con i polsini della camicia sbottonati che fuoriescono dalle maniche della giacca, Pablo Larrain è arrivato a Venezia con Jackie. Si tratta del regista del momento nella scena autoriale, con il film più atteso dell’autunno, il suo primo americano, il primo con una star (Natalie Portman) e pare potersi permettere tutto.

Lo abbiamo incontrato poche ore dopo la prima proiezione per la stampa del suo film e subito siamo entrati nel vivo con la prima domanda.

Hai fatto un film più sulla Casa Bianca che su Jacqueline Kennedy….

“In Jackie la Casa Bianca è un labirinto e quel che volevo era fare in modo che lo spazio fisico avesse un significato psicologico. Abbiamo costruito da zero intere stanze della Casa Bianca. Non potevamo farla tutta, così abbiamo scelto le zone più rilevanti, quelle che sono un’estensione di ciò che lei sta passando”.

Si ma hai anche girato ex novo la trasmissione televisiva in cui Jackie mostrava la casa all’America…

“Ho ricostruito la trasmissione video perché testimoniava l’epica di splendore. Jackie fu criticata per il restauro e in quella trasmissione spiegò al popolo quel che aveva cambiato e la mostrò a tutti per la prima volta, era il momento di massimo splendore, i giorni che Jackie ha sempre descritto come i più felici della sua vita. Mi serviva per metterlo in contrasto con ciò che ha subito, il cinema è costruito sui paradossi e mi pareva interessante tornare a quei giorni. Cercava di proteggere la memoria del marito e nel farlo ha creato una leggenda, diventando anch’essa leggenda di riflesso, un manichino, un’icona di moda, la donna che conosciamo. Puoi cadere davvero in basso solo quando sei in alto, nessuno cade molto in basso camminando”.

Qui c’è una morte per sparo che fa partire gli eventi, una cosa che capitava anche in Post Mortem…

“Se leggi i report ufficiali ci sono tutti i dati e le informazioni su ciò che è successo. Sono molto precisi. Io invece volevo guardare il mondo dai suoi occhi. Come spesso faccio nei miei film preferisco guardare gli eventi da un punto di vista obliquo stando vicino ai grandi personaggi (forse solo Neruda fa eccezione), è come stare in cucina e ascoltare quel che avviene in salotto. Quando le porte si chiudono nessuno sa cosa sia successo, lì è dove voglio provare ad arrivare. Io non so chi Jackie fosse davvero nè posso dirlo ora ed è quel che mi affascina. È come guardare una montagna o prendere un fantasma, non ci riesci”.

Quanto è stato necessario lavorare assieme a Natalie Portman per arrivare a questo?

“Non è stato facile anche se lei ha una grande sensibilità. I primi giorni di ripresa stava molto lontana dalla videocamera, poi le ho detto di avvicinarsi, poi qualche giorno dopo le ho chiesto di venire ancora più vicina, poi ancora di più. Certo ho diverse inquadrature ampie eh, ma l’abbiamo avvicinata sempre di più, siamo stati sempre con lei, in ogni scena”.

Sei soddisfatto del film così com’è?

“Non lo so non guardo mai di nuovo i miei film. Ero a Telluride poco fa e mi hanno fatto un tributo con clip dei miei film, una cosa che mi mette paura. Non sto in sala nemmeno alle premiere. Ci sono registi che amano stare con il pubblico e vedere come reagiscono, io no. Io mi nascondo dietro un albero, faccio castelli di sabbia, ogni cosa ma non ci penso. In questo film sono stato fortunato perchè di solito in film così non hai controllo artistico”.

Come ti sei documentato? Hai parlato con qualcuno vicino alla famiglia Kennedy?

“No, ho usato solo ciò che è pubblico. Ho fatto tantissima ricerca ma non volevo realizzare un documentario, volevo fare un film pieno di rispetto ma libero. La Kennedy Foundation ci ha aiutato fornendoci tutte le informazioni che gli abbiamo chiesto, l’esercito anche e il governo pure. Tutti ci hanno spiegato alcune procedure, ma nessuno ha toccato lo script. Abbiamo avuto anche le planimetrie della Casa Bianca per rifarla uguale in scala 1:1”

Mobili inclusi?

“La cosa forte è che Jackie si rivolse ad un designer francese per il restauro e quindi molti dei mobili che inserì erano francesi. Noi gli interni li abbiamo girati in Francia, a St. Denis e il nostro scenografo si è recato in tutte le principali compagnie di mobili, molte delle quali ancora avevano gli stampi di quei mobili e quindi li hanno ricostruiti identici. Non somigliano agli originali, sono proprio quella cosa lì. Le tende gialle? Sono esattamente quelle lì, come erano, stesso tessuto, stesso colore”.

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