Nel giorno in cui viene presentato alla stampa romana The Young Pope di Paolo Sorrentino, pubblichiamo la notizia della morte del “Vecchio Papa” del cinema polacco Andrzej Wajda, mancato ieri alla maestosa età di 90 anni. Per capire il suo ruolo nel cinema europeo del dopoguerra (all’epoca si sarebbe detto “nel cinema dell’Europa dell’Est”), basti pensare a questo palmarès: Oscar (alla carriera nel 2000), Palma d’Oro a Cannes (nel 1981 per L’Uomo Di Ferro), Bafta, César, David di Donatello, Orso d’Argento e Leone d’Oro (alla carriera nel 1998). Solo per citare i premi più importanti.
A lui ha chiaramente fatto riferimento Jerzy Skolimowski, il Leone d’Oro alla carriera di questa da poco conclusasi Mostra del Cinema di Venezia 2016 quando, nella sua conferenza stampa da premiato, ha ricordato quella generazione di registi polacchi che nel primo dopoguerra usarono il linguaggio del simbolismo e del surrealismo per aggirare le maglie della censura sovietica. Era il loro modo di comunicare con i giovani. E il regime, a volte, non se ne accorgeva. Wajda, Skolimowski e il più giovane Polanski erano tutti lì in quel formidabile periodo postbellico dove esplodevano le nouvelle vague in tutto il vecchio continente.
Era una generazione a suo modo molto fortunata: nati nel momento giusto, sopravvissuti alla guerra e pronti a esplodere da ragazzini come tanti altri colleghi europei. Pochissimi volevano o potevano fare i registi in quegli anni e così ecco Wajda appena 31enne vincere un premio importante a Cannes ex aequo con un certo 39enne svedese di nome Ingmar Bergman.
Il film di Wajda era il grandissimo dramma di guerra ambientato nelle fogne I Dannati di Varsavia (1957).
Il film di Bergman era Il Settimo Sigillo.
Da quel super esordio, la strada fu in discesa con Hollywood subito pronta a proteggere e ammirare, con scaltrezza geopolitica, coloro i quali in teoria giocavano per gli avversari ma forse erano troppo piantagrane.
E infatti Wajda fu subito amato e odiato in patria in quanto considerato per i canoni del continente… troppo commerciale. Pensate che il bellissimo Samson (1961; un giovane ebreo e le sue vicissitudini nella Varsavia occupata), letteralmente adorato da Steven Spielberg, fu così scioccante dal punto di vista stilistico da prendere in contropiede i tanti estimatori dei precedenti drammi sociali diretti dal regista.
Nei ’70 Wajda è iperattivo e sempre più internazionale. Realizza un film all’anno con i picchi de L’Uomo Di Marmo (1977) e Direttore D’Orchestra (1980) con John Gielgud.
Negli ’80 arriva la passione per il movimento sindacale Solidarność con la vittoria a Cannes per L’Uomo Di Ferro (1981) in cui compare il vero Lech Walesa nei panni di se stesso. Le autorità sovietiche lo trovano sempre più sovversivo cominciando a mettergli i bastoni tra le ruote. Lui per tutta risposta sceglie progetti sempre meno collegati al suo paese come Danton (1983) con Gérard Depardieu o l’ambizioso Dostoevskij – I Demoni (1988).
Nel 1990 arriva un altro capolavoro come Dottor Korczak (la vita dello storico pedagogo polacco e il suo tentativo di proteggere i piccoli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale), ennesima pellicola di Wajda con entusiastiche reazioni da parte di un certo Steven Spielberg, il quale ha sempre ammesso quanto il cinema del maestro polacco lo avesse ispirato e aiutato per Schindler’s List (1993).
Rimase attivissimo al cinema, in tv e televisione praticamente fino ai suoi ultimi giorni.
La sua ultima pellicola fu Walesa – L’Uomo Della Speranza (2013), ancora una volta dedicata al sindacalista che cambiò la Polonia e forse non solo quella. Un uomo in grado di far sorridere anche Oriana Fallaci, in quel film interpretata da Maria Rosario Omaggio.
Si è spento ieri uno di quei giganti del ‘900 che come Satyajit Ray, François Truffaut, Vittorio De Sica e Akira Kurosawa aiutarono cinematografie considerate minori rispetto al gigante hollywoodiano a conquistare il mondo e innalzare sempre più in alto l’arte espressiva cinematografica.

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