Cowboy Bebop e… quando l’occidente trasla gli anime in live action

Forse (forse!) quella dei supereroi è una bolla che non scoppierà mai davvero, ma che attualmente, dopo tanti anni, comincia a traballare, come un maratoneta col fiato corto che avrebbe seriamente bisogno di una pausa. L’industria del cinema e della tv, tuttavia, ha una continua necessità di nuove properties da (far) idolatrare da una nutrita schiera di spettatori affamati di franchise multimediali e transmediali, e in questo caso appare è più che naturale volgere lo sguardo su anime e manga, che ormai da decenni hanno un folto seguito anche in occidente. 

Ed ecco che arriva, su Netflix, uno show come il live action di Cowboy Bebop, basato sull’omonimo anime Sunrise, un’opera divisoria e ancora più bizzarra della serie animata a cui si ispira. Tira aria di novità e rinnovamento o è solo una brezza passeggera, incapace di lasciare un segno? Scopriamolo assieme.

Naturalmente, le trasposizioni da anime e manga non sono una novità, quantomeno in patria: in Giappone già negli anni ’60 e ’70 andarono in onda le prime versioni live action di alcune opere dei mangaka più popolari, come Tezuka, Ishinomori e Nagai. Da lì, è stato un continuo susseguirsi, nell’arcipelago, di adattamenti più o meno fedeli, di ogni genere: dall’azione all’erotico, dalla commedia allo sportivo, passando per gli slice of life più romantici. Queste opere derivate, solitamente, raggiungono bene il loro pubblico d’elezione, poiché adattate da professionisti che ne comprendono perfettamente testi e sottotesti, per poi integrarli per quanto possibile sul grande e piccolo schermo, con attori in carne e ossa, coi mezzi a disposizione. È pacifico intuire che, spesso, le migliori trasposizioni sono quelle che non hanno bisogno di effetti speciali e soluzioni vistose, in cui il cinema giapponese è notoriamente un po’ posticcio nella messa in scena, salvo rari casi. Un manga sportivo, di samurai o ad ambientazione sportiva o musicale (Rurouni Kenshin o Nana, ad esempio) hanno ottime probabilità di riuscita, mentre riprodurre uno shonen pieno di VFX e combattimenti adrenalinici comporta uno sforzo produttivo ben diverso, che raramente trova il giusto sfogo, anche se negli ultimi anni le cose sono indubbiamente migliorate (Full Metal Alchemist, L’Attacco dei Giganti). E, quando si ha a che fare con umorismo e trovate grottesche, i registi giapponesi sanno bene dove andare a parare per renderlo al meglio.

Purtroppo, non altrettanto si può dire delle produzioni occidentali tratte da anime e manga, con risultati e intenti dei più disparati. Si tratta, in realtà, di appena una quindicina di produzioni maggiori, se andiamo a fare il censimento degli ultimi decenni. Di queste, ne possiamo salvare una manciata, ma restano molto interessanti da analizzare da un punto di vista produttivo.

Quello che è forse il primo esempio in proposito è una coproduzione nippo-francese del 1979, Lady Oscar, tratto dal manga Versailles no Bara e che di fatto anticipa l’anime, celebre anche nel nostro paese. La storia, vista l’ambientazione alle porte della Rivoluzione Francese, dovrebbe favorire una trasposizione occidentale, che purtroppo però è all’acqua di rose, presentando una versione piuttosto patinata delle vicende originali senza trasmettere la delicata forza insita nel personaggio protagonista.

Gli anni ’90 sono terreno (apparentemente) fertile per questo tipo di operazioni, che vedono l’arrivo di trasposizioni action da manga dai contenuti abbastanza forti, se non pulp: ecco giungere ben due film dedicati a Guyver, con nomi impegnati interessanti impegnati su di essi: Brian Yuzna, Mark Hamill, Screaming Mad George, David Hayter… peccato che i mezzi a disposizione li rendano poco più che episodi dark dei Power Rangers.

Crying Freeman, di contro, risulta assolutamente perfetto per il periodo, con il regista francese Christophe Gans in grado di fare, ante-litteram, un lavoro simile a quello realizzato anni dopo da Zack Snyder per Watchmen, adattando il tutto con criterio e sfruttando al meglio il protagonista Mark Dacascos.

Al contrario, Fist of the North Star si prende davvero parecchie libertà dall’originale storia di Ken il Guerriero (Hokuto no Ken) risultando ridicolo o incostante in massima parte, pur con alcuni bei momenti. 

Esempio molto interessante è quello di City Hunter, che incarna la molteplicità di generi e registri di tanti manga, in grado di passare senza soluzione di continuità dall’ilarità all’epica e al dramma. I due live action tratti dal manga di Tsukasa Hojo (il primo, del 1993, con Jackie Chan nel ruolo del protagonista, e il secondo, molto recente, francese) epurano il tutto di due elementi importanti: la collocazione spazio-temporale (Shinjuku a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, un setting dalle regole ben precise) e l’aspetto drammatico della vicenda, lasciando solo azione e commedia a irretire lo spettatore.

Cominciate, già da questi pochi esempi, a notare uno schema, che potrebbe aiutare i produttori a prevedere il disastro? Eppure sembra che la storia non abbia insegnato nulla a tanti di essi. Andatelo a dire a chi ha voluto Dragon Ball Evolution, che mancava dei veri elementi cardine dell’amata saga di Goku (per assurdo, Man of Steel è un film su Dragon Ball migliore, se vogliamo!), o a chi ha portato in scena, smarrendo completamente il senso dell’originale, Death Note, i cui live action in Giappone hanno invece ben ingranato. 

 

ghost in the shell

 

Nel 2017, Paramount ha scomodato Scarlett Johansson e Takeshi Kitano per portare su grande schermo Ghost in the Shell, con risultati purtroppo miseri per una serie di concause, in primis il pensare che l’ambientazione cyberpunk potesse funzionare al meglio semplificandola e svilendola dei suoi sottesi e sottotesti.

Da questo punto di vista, decisamente più riuscito Alita – Angelo della battaglia di Robert Rodriguez, un progetto di James Cameron subappaltato al regista texano che, con perizia, ha saputo cogliere i punti salienti dell’opera senza snaturarla e condensando la storia in modo efficace, confezionando con tutta probabilità l’esperimento migliore del genere.

Migliore anche dello Speed Racer regalatoci dalla premiata ditta Wachowski, che bene ha colto lo spirito over the top e le potenzialità dell’opera originale, ma confezionando qualcosa che difficilmente poteva avere un ritorno di pubblico presso i botteghini nostrani.

Come abbiamo visto, una serie di tentativi perlopiù bislacchi o quantomeno fuori fuoco, perché nella maggior parte dei casi si tratta di adattamenti su piani plurimi su cui si sono andate a perdere coordinate geografiche e sociali (che spesso portano a visioni e interpretazioni completamente diverse), generi di riferimento, pubblico potenziale, in nome di una visione miope basata sull’occidentalizzazione di nomi ed elementi orientali senza i quali, tuttavia, la storia non si regge in piedi con le sue gambe, anche se ambientata in occidente. È difatti questione anche di ritmo, di sinergie tra i vari passi delle vicende e i loro registri. E c’è stata, in particolare, la tendenza a rendere il tutto sempre più come storie coloratissime e ipercinetiche senza, però, comprendere le basi rispetto all’utilizzo di quegli effetti.

È per questo che produzioni importanti come quelle relative ad Akira, Neon Genesis Evangelion e Gundam si sono sempre arenate: manca, il più delle volte, anche solo la capacità di comprendere il materiale di riferimento, nonché la maestria di adattarlo senza snaturarlo.

Che è, per certi versi, anche il difetto di Cowboy Bebop, che decolla davvero solo quando si affranca (rispettosamente ma senza troppe remore) dall’originale, trovando il proprio cammino e tirando dritto; al contrario, le scene riprese dall’anime sono una copia carbone (ripassata male) che inciampa rovinosamente, e non c’è colonna sonora che tenga quando questo accade. Anche in questo caso, si punta più sull’azione e sull’approccio all-in che a restituire l’essenza dei personaggi e delle storie.

Come dicevamo nell’intro, il mercato si è comunque risvegliato intorno a manga e anime da adattare “all’occidentale” e per quanto un brivido ci corra lungo la schiena, nonostante le premesse non fossero buone, Netflix ci ha imbonito con l’ottima scelta di casting per One Piece: se riusciranno a rendere l’aria scanzonata e fumettistica – che su Cowboy Bebop sfociava quasi nella parodia – potrebbe fare centro. 

D’altro canto, arriveranno anche i Cavalieri dello Zodiaco, con un’ennesimo stravolgimento di storie e personaggi, ma chissà che il tutto non vada per il meglio. Lo speriamo: nel frattempo, facciamo ancora i complimenti a Legendary per aver capito di aver bisogno di un regista giapponese per girare un film giapponese nell’anima, come il live action di My Hero Academia in preparazione da parte del veterano Shinsuke Sato.

Trovate tutte le notizie e le recensioni sulla serie di Cowboy Bebop nella nostra scheda.

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