È finalmente uscito The French Dispatch: dopo il debutto al Festival di Cannes e la presentazione al New York Film Festival, il decimo lungometraggio di Wes Anderson è arrivato nei cinema. Per presentarlo, il regista texano ha incontrato qualche giorno fa i giornalisti a Milano, dopo aver partecipato a un’anteprima speciale presso la Fondazione Prada, cui ha fatto seguito un party nel Bar Luce da lui progettato.

Anderson ha parlato prima di tutto delle sue ispirazioni per realizzare il film, precisando che non si tratta tanto di una lettera d’amore al giornalismo, quanto un omaggio alla cultura, alla scrittura e all’arte in generale, a partire dal cinema italiano:

L’ispirazione per The French Dispatch nasce dal The New Yorker, che leggo fin da quando ero un ragazzino. Mi ha sempre interessato molto tutta la realtà che stava dietro a questa rivista, e quindi per realizzare il mio film ho iniziato a studiare come veniva fatta, chi lavorava in redazione… quali erano i personaggi che animavano la redazione del New Yorker, indagando la storia di questa prestigiosa rivista. La prima cosa ad attirarmi sono stati quei racconti brevi che tradizionalmente venivano pubblicati all’inizio: racconti di fantasia. In seguito, in primo piano si puntò più sul giornalismo, ma i primi anni la parte iniziale del giornale era dedicata alla narrativa.

Non lo definirei insomma una lettera d’amore al mondo del giornalismo. Sebbene venga presentato come tale, il mio film è ispirato al giornalismo, tratta l’argomento del giornalismo, ma racconta delle storie immaginate. Quando faccio un film non faccio mai un omaggio verso chi ammiro, anche se ovviamente sono sentimenti che provo. L’ispirazione però diventa talmente evidente che mi trovo a sentirmi in debito, per evitare che mi si accusi di plagio rendo queste citazioni molto evidenti, arrivando addirittura a inserire esplicitamente didascalie, come delle note a pié di pagina. Alla fine rubo qua e là, riconoscendo ovviamente l’origine del materiale, per arrivare a un risultato che mi auguro sia il migliore possibile.

Certo, sono molto legato al giornalismo e soprattutto ai quotidiani, che compro e leggo ogni giorno. Ma questo film si concentra su quel tipo di giornalismo che sta un po’ scomparendo. Oggi, grazie ai social media e a internet, l’informazione e le storie spesso ci vengono presentate senza che vi sia qualsivoglia mediazione. Non che in passato non venissero costruite storie ad arte. Ma ora è come se non esistesse più una figura che possa mediare o anche distorcere la realtà. Inutile dire che, come per tutto quanto, io preferisco il passato!

The French Dispatch è stato girato in Francia, ad Angouleme, e Anderson ha spiegato il motivo per cui ha scelto questa cittadina come set:

Sebbene sia un film girato in Francia, la primissima ispirazione è stato L’oro di Napoli di Vittorio De Sica. Quando l’ho visto ho pensato di realizzare una antologia di storie brevi, che è una forma di narrazione tipica del cinema italiano: basti pensare a Fellini, Visconti, Pasolini, appunto De Sica… Lo hanno fatto anche in altri paesi ma penso che sia una forma espressiva decisamente italiana.

Abbiamo scelto la Francia come ambientazione, io e Adam Stockhousen, lo scenografo, ci siamo messi alla ricerca di una cittadina vera, con una storia, ma che non fosse affollata, con una certa tranquillità. Questo perché volevamo vivere e girare lì il nostro film, senza dover fare i conti con la realtà economica e industriale di una città. Avevo avuto un’esperienza simile in passato e avevo osservato come un tale contesto agevoli moltissimo, consentendo di concentrarci meglio sul proprio film. Abbiamo quindi trovato Angouleme, scelta ideale perché si tratta di una cittadina che ci ha consentito di lavorare come si faceva una volta, usando delle aree della città come veri e propri studi cinematografici, abbiamo trasformato alcuni scorci della città scenografando stradine, vicoli e angoli, e abbiamo avuto la possibilità di costruire dei set da zero riconvertendo dei capannoni in teatri di posa. Ben mille abitanti hanno fatto le comparse, poi abbiamo proiettato il film in due sale cinematografiche piene solo con gli abitanti che avevano partecipato.

Il film è visivamente ricchissimo, e alterna momenti a colori con scene in bianco e nero, cambi di formato e persino una sequenza in animazione. Anche in questo caso, c’è un preciso motivo:

Il mio primo lavoro è stato in bianco e nero, era un cortometraggio. Recentemente ho discusso con un regista famoso proprio dell’argomento dei diversi formati, del colore e del bianco e nero. Lui ha fatto una ventina di film e mi ha detto che se avesse potuto li avrebbe girati tutti nel tradizionale formato Academy, in bianco e nero. Il bianco e nero semplifica l’immagine in un modo che ti assicura una sorta di bellezza: il medium stesso ha una sua bellezza intrinseca. Ovviamente io non ho la stessa idea, infatti nel mio film alterno di tutto. Ma sono d’accordo con lui su questa cosa. In alcune parti del mio film ho pensato subito al bianco e nero, come nei flashback ambientati in prigione: quando vedevo Benicio Del Toro pensavo a lui come a Michel Simon. Non ho mai visto quest’attore a colori, quindi per me è stato automatico pensare a quelle scene in bianco e nero. Il modo in cui abbiamo progettato quelle parti del film, poi, è stato diverso dal modo usato per le scene a colori, perché abbiamo usato un’illuminazione diversa. Quando giri a colori ci sono dettagli aggiuntivi a cui pensare. Inoltre, nel nostro caso era importante anche per distinguere i vari piani temporali e i vari piani della narrazione.

Anderson ha infine accennato al suo prossimo film, le cui riprese sono appena terminate:

Ho appena finito il mio prossimo film, lo abbiamo girato in Spagna, è ambientato negli Stati Uniti, abbiamo finito le riprese due settimane fa e mi sono divertito molto. Vorrei fare un altro film in Italia, vi avevo già girato Le avventure acquatiche di Steve Zissou e un corto prodotto in collaborazione con Prada, girato anche lui a Cinecittà. Amo lavorare in Italia. Solitamente quando inizio un film cerco di pensare: come posso farlo a Cinecittà? Quindi sono certo che arriverà il progetto giusto. Ma quando faccio un film raramente lavoro negli Stati Uniti, a parte i miei primi film (ho girato Rushmore dove sono andato a scuola),  ora giro in tutto il mondo. Ogni volta che faccio un film, mi resta qualcosa che mi conduce al film successivo. E soprattutto, da ogni film traggo un’esperienza da portare nel successivo: in Spagna abbiamo coinvolto un attrezzista che ho conosciuto in India. E la nostra costumista, Milena Canonero, l’ho incontrata quando ho girato in Italia. Ci sono americani, inglesi, tedeschi, tantissimi francesi ci hanno seguito in Spagna. Siamo un gruppo completamente internazionale. È sempre un’esperienza educativa. Faccio un esempio: in tutto il mondo sul set si usa quella che si chiama “apple box”, una specie di cassetta in legno utilissima per rialzare un attore durante le riprese di una scena (ovviamente non viene inquadrata). In Francia ne hanno una versione ottimizzata, personalizzata e brevettata. Girando in Francia ho scoperto questa versione e da quel momento in poi non ho potuto fare a meno di utilizzare quella!

Nel cast di The French Dispatch troviamo Benicio Del Toro, Frances McDormand, Jeffrey Wright, Adrien Brody, Timothee Chalamet, Lea Seydoux, Tilda Swinton, Mathieu Amalric, Lyna Khoudri, Elisabeth Moss, Stephen Park, Owen Wilson, Elisabeth Moss e Bill Murray.

 

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