Nonostante A Thousand And One sia il suo primo lungometraggio A.V. Rockwell ma ha una mano solidissima. È una storia molto vicina a lei e alla sua formazione, una storia di New York, di Brooklyn e dei mutamenti intercorsi tra il 1994 e gli anni 2000, visti attraverso la storia di una famiglia che in realtà è un duo, una madre e un figlio, con un padre che orbita intorno a loro. Tutto si gioca tra giustizia e ingiustizia, cosa è una e cosa è l’altra, la madre infatti rapisce suo figlio dai servizi sociali, se lo riprende e gli cambia nome perché nessuno lo trovi, questo però non risolve i loro molti problemi.

Il film è stato presentato al Sundance Film Festival di quest’anno finendo per vincere il gran premio della giuria, ora viene distribuito in Italia e per l’occasione abbiamo incontrato la regista.

Una caratteristica peculiare di A Thousand And One è la sua protagonista, così dura e così diversa da come il cinema di solito racconta le madri, sembra quasi modellata come i film ci raccontano gli uomini: molto silenziosa, burbera e per nulla vogliosa di parlare di sentimenti o di rassicurare i figli…

“Non la descriverei così ma ti posso dire che la maniera in cui ci relazioniamo gli uni agli altri è qualcosa a cui pensavo nello scriverla”.

Non ti sembra che la maniera in cui Ines si comporta è il contrario di quel che il cinema dice delle donne: che sono più emotive?

“Penso che donne come Ines non hanno lo spazio o l’opportunità per essere femminili in pieno, lei è sempre in survival mode anche quando vorrebbe una pausa dal dover fare anche da figura paterna o da presenza maschile. Io ho cercato di rappresentare con Ines molte donne, specialmente madri single che non hanno lo spazio per vivere e riflettere su come si sentano o come processino le proprie esperienze. Ines assume su di sé i ruoli di madre e padre anche quando c’è Lucky [il padre di suo figlio ndr] e quindi non ha spazio per pensare a quel che le succede. Nei film non vedi donne così, invece noi nella vita vera ne vediamo molte intorno a noi”.

Ci avete lavorato con Teyana Taylor, che poi l’ha interpretata, o era così già in sceneggiatura?

“Era nella sceneggiatura. Onorare queste donne, era uno degli obiettivi. Donne che nessuno vede e portano su di sé pesi grandissimi che finiscono per indurirle, perché nessuno ha mai avuto compassione per loro o le ha viste. Volevo che queste donne si sentissero apprezzate per i sacrifici fatti”.

Suppongo inoltre che un’altra ragione per fare il film sia stata raccontare New York, com’è oggi rispetto a com’era negli anni ‘90 no?

“L’ironia di New York nel 1994 rispetto a oggi è che era una città caotica e aggressiva ma anche più accessibile di oggi, è diventata un parco giochi per ricchi. Quello che si è persa è la sua identità, è sempre stata una città in mutamento e in evoluzione, fatta da persone che vengono da posti diversi per trovare la loro versione del sogno americano. Per molti New York era il punto di ingresso negli Stati Uniti, ora invece è un posto di svago per chi ha un certo reddito”.

È curioso perché a fine anni ‘90 in Al di là della vita Martin Scorsese diceva qualcosa di simile riguardo la New York degli anni ‘90 rispetto a quella degli anni ‘70, non che fosse un posto per ricchi ma che stesse cambiando in peggio. È un costante peggioramento o ognuno rimpiange la città della sua infanzia?

“Credo che sia dovuto al fatto che negli anni ‘90 si era passati attraverso un crollo economico, un momento durissimo, all’epoca New York era devastata. Ora c’è stato un indubbio progresso, solo che credo sia arrivato alle spese dei cittadini. In superficie ora New York è splendente, è Disneyland, attraente per i turisti, ma per chi viveva lì è peggiorata”.

Negli anni ‘90 non era più pericolosa come città?

“Sì ma tutti potevano esistere. Ora invece è più sicura in superficie ma non puoi sopravvivere a meno che non hai un sistema di supporto in piedi. Se io fossi cresciuta a New York anche solo dieci anni dopo il mio anno di nascita non so se sarei riuscita ad arrivare dove sono arrivata, perché non è più un posto per artisti. Non è neanche una questione di minoranze, ma proprio di artisti. Oggi è un posto che significa qualcosa di diverso”.

A Thousand And One è al cinema.

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