Continuiamo il ciclo di interviste industry, iniziato con Roberto Proia e proseguito con Maria Carolina Terzi e Mattia Guerra, chiacchierando con Carlo Cresto-Dina, CEO e proprietario di Tempesta. Cresto-Dina ha legato indissolubilmente il suo nome ai registi Alice Rohrwacher, che lui scopre ai tempi del prodigioso esordio Corpo celeste (2011) e Leonardo Di Costanzo, cineasta di nicchia esploso definitivamente con il dramma carcerario Ariaferma (2021), vincitore di due David di Donatello per Miglior Sceneggiatura Originale e Miglior Attore Protagonista. Cresto-Dina ha avuto la recente soddisfazione di vedere l’esordio alla regia Gloria! di Margherita Vicario essere incluso nel Concorso del 74esimo Festival di Berlino che si svolgerà nella capitale tedesca dal 15 al 25 febbraio prossimi.

Innanzitutto come nasce la passione per questa cosa qui che ancora chiamiamo “cinema”? Anno, film, personaggio, tematica?

La “malattia” l’ho presa in un piccolo cinema parrocchiale dove si vedevano dei film che non venivano programmati da altre parti. Ero piccolo e mi trovavo ad Alba, in provincia di Cuneo. Ricordo perfettamente la sera in cui tornai a casa da solo dopo aver visto Dersu Uzala (1975) di Akira Kurosawa. Quello fu un colpo di fulmine. Però forse più che una vocazione specifica rispetto al cinema penso che quello che mi cominciò ad alimentare all’epoca fu l’interesse per il lavoro culturale in senso più lato. Il cinema per me è uno strumento e non un fine. Il fine è credere che un serio lavoro culturale contribuisca alla tessitura di una comunità, di un paese e di una lingua nazionale. L’idea che diffondere contenuti culturali porti profondità e aiuti la convivenza umana che è sempre l’ultimo fine.

Che cos’è il prodotto audiovisivo per te?

Un racconto per immagini. Per essere più specifici un racconto per immagini in movimento. È importantissimo per me che questo raconto cerchi di parlare ad una massa. Un’operazione in cui quello che conta sia il “mi è piaciuto” o “non mi è piaciuto” del pubblico. Voglio prodotti audiovisivi che cerchino una massa. Per me il pubblico è essenziale.

Quand’è che la passione ha battuto il raziocinio nella tua carriera?

Spero seriamente mai. Però è vero che nel 2008, con una vasta famiglia sulle spalle e 5000 euro di capitale in banca… ho creato la casa di produzione Tempesta. Tanto raziocinante in quel momento non dovevo mica essere. Nel 2008 il capitalismo era crollato per la crisi dei mutui subprime, in Italia stavamo messi male… e io in quel contesto storico fondo una società.

Un grande errore compiuto in carriera?

Tanti. Mi sembrano però ricorrenti gli errori di gestione dei rapporti umani. Poco fa mi son trovato a ripetere una battuta di Adriano Olivetti che amo molto. Quando lui diceva che si arrabbiava sempre due volte : la prima volta si arrabbiava e poi si arrabbiava di essersi arrabbiato. A volte non essere capaci di interloquire con le persone è un errore grave. Il produttore deve essere capace di farlo. Non mi interessa qua dirti come errori i film che ho perso perché resto convinto che quei film alla fine non fossero per me. Quelli francamente non li vivo come errori.

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Gloria! di Margherita Vicario

Un grande colpo assestato?

Gloria! di Margherita Vicario, preso ora in Concorso a Berlino. Margherita ha fatto un film liberissimo e completamente pop. Lo possono vedere i bambini e si divertiranno. Lo vedrà un musicologo e si divertirà pure lui. Che sia stato preso a Berlino, è un gran colpo che abbiamo fatto. Ci tengo molto al plurale perché è un film prodotto da tre persone: io ma soprattutto Valeria Jamonte e Manuela Melissano. Il merito è soprattutto di loro due. Sono Valeria e Manuela che ci hanno messo tanta competenza e dedizione. Trovo che ancora manchi una maggiore conoscenza e coscienza nel mondo che ci guarda circa il mestiere di produttore. Il caso di Margherita è emblematico. Diventa cruciale capire che succede da quando scopro un talento a quando il talento realizza concretamente il film. Questa cosa è importante non per l’ego di un produttore ma perché è importante far capire all’industria che è quel meccanismo, e in quel rapporto tra produttore e regista, che si crea la qualità e si preserva quella che io chiamo biodiversità cinematografica. Ho paura di diventare fondamentalista perché penso che questo concetto sia veramente importante. Si deve capire definitivamente che cosa fa il produttore.

Cos’è la cosa più importante che hai imparato del mestiere in questi anni?

Avere imparato, e ovviamente continuare ad imparare, la capacità di interloquire a livello alto con una rete di talenti cinematografici che ti girano intorno. Oggi parlavo con un collega e parlavamo dell’esperienza di un autore o autrice che incontri giovanissimo e che ti esplode in termini di notorietà internazionale tra le mani. A me è successo con Alice Rohrwacher. È molto complesso da gestire quel processo e lì si impara ad esempio moltissimo.

Cos’è che ti piace di più in questo momento? Quella “cosa” che quando la vedi pensi: “È perfetta”?

Preferirei veramente non usare la parola “perfezione”, sia per disposizione personale alla severità verso me stesso, sia perché penso che la capacità di guardare criticamente il lavoro svolto sia molto importante, direi intrinseca al mestiere del produttore. Però dovendo sforzarmi di indicare uno tra i film che abbiamo prodotto a cui riconosco una completezza e un “funzionamento” drammatico veramente rari, allora dico Ariaferma scritto e diretto da Leonardo Di Costanzo. È un racconto che si fonda su archetipi tragici classici e quindi arriva a toccare corde profonde di ciò che siamo, ma riesce a trascinarci in una progressione drammatica che avvince, inchioda. E alla fine ci lascia con una domanda civile molto alta sulle risposte comunitarie al “male” che ci circonda e si incarna in alcuni individui che vivono tra di noi.

Carlo da quando producesti Tickets (2005), per la regia di Ken Loach, Abbas Kiarostami ed Ermanno Olmi, hai attraversato quasi 20 anni decisivi nella storia dell’audiovisivo, dai primi anni 2000 a oggi. Cosa succederà secondo te ancora a questa “cosa” nata nel 1895?

A me pare che stia succedendo una cosa. La mia impressione è che da un po’ il cinema inteso come esperienza collettiva continuata si stia sempre di più trasformando in un esperienza simile all’opera lirica. Nel senso che non vai a vedere tutte le settimane Verdi a teatro. Ci vai al massimo un paio di volte l’anno. Io non dico che ogni film debba competere con Barbie ma ogni pellicola dovrebbe avere abbastanza elementi per essere notata. Io vedo che il cinema cosiddetto d’autore sta diventando una cosa non dissimile rispetto alla musica contemporanea del ‘900. Ovvero ha cominciato a parlare a un porzione minima della comunità. Questo cinema sta andando a cercare un pubblico sempre più ristretto. Lo vedo. Un terzo fenomeno è che l’industria dell’audiovisivo ha imparato a trasformare in brand dei nomi. Un processo simile alle “archistar” dell’architettura. Noi abbiamo sia “archiregisti” che “archiregiste” che possono fare un po’ tutto. Mi sembra sempre un meccanismo un po’ troppo autoreferenziale.

Isabella Rossellini la chimera Simona Pampallona
Isabella Rossellini ne La Chimera (© Simona Pampallona)

Qual è il regista che ti ha colpito di più con cui hai collaborato e la star che ti ha sorpreso di più da vicino?

Con Andrea Gambetta lavorammo a un documentario di Emir Kusturica e lui era una mente e una personalità veramente di grande spessore. Una mente potente. Che tragicamente in quel momento (era il 2001 e il doc si intitolava Super 8 Stories, N.d.R.) cominciava a perdersi. Questo racconto mi permette di ricordare di nuovo Karl Baumgartner. Come mai i film di Kusturica erano così belli prima? Forse “Baumy” c’entrava qualcosa? Questo per ribadire sempre che il rapporto tra produttore e regista è un rapporto complicato ma nel migliore dei casi evolutivo per entrambi. La star? Isabella Rossellini che abbiamo avuto dentro La Chimera di Alice Rohrwacher. Perché è una donna straordinaria prima di essere un attrice. Considera che una modella che prende la copertina di Vogue America è tanta roba e ci sono solo pochissime modelle che hanno avuto 2 copertine. Isabella ha avute 6 copertine di Vogue America e 39 copertine di Vogue in tutto il mondo. Persona di disponibilità, passione e semplicità. È una star enorme e non fa mai la star. Io le ho confessato che avevo una cotta per lei ai tempi del programma tv L’altra domenica (1976) di Renzo Arbore. Ha preso un phd in etologia, realizza dei cortometraggi geniali su YouTube e ora vive in una fattoria biologica nello stato di New York. Immensa.

Si produce troppo secondo te in Italia?

Un po’ a malincuore e un po’ sussurrandolo… ti rispondo sì. Non voglio passare per quello che è partito con 5000 euro in tasca e poi è diventato snob. Però negli ultimi anni è diventato un po’ troppo semplice montare un primo film con il tax credit al 40% e qualche deferral (tecnicamente il deferral è una sorta di cambiale o piuttosto un pagamento delle maestranze posticipato al momento dei primi utili che il film ottiene, N.d.R.). Anche le film commission aiutano molto. Diciamo che un film così si riesce a fare ma poi il rischio è che non faccia alcuna strada dopo. Se uno apre la piattaforma dei David di Donatello si trova davanti 30, 40 titoli di cui non sai niente anche se sei immerso nell’industria da anni. Film che poi non escono da nessuna parte. Secondo me questa roba andrebbe regolata. Anche l’ANICA è d’accordo. Un meccanismo non deve mortificare i germogli che stanno crescendo. Quindi non chiedo che si segua solo il track record (leggi: curriculum del produttore, N.d.R.) perché anche i nuovi hanno bisogno di spazio per favorire la biodiversità di qualità. Ma è necessario smettere di fare film… per fare film. Il tax credit va regolato anche verso l’alto. Ci sono alcuni progetti e società che hanno preso tantissimi soldi e sicuramente se li sono meritati ma bisogna capire se questo è il modo giusto di finanziare l’industria. È giusto vedersi tutti per fare un ragionamento. Mi dispiace che questo governo si stia muovendo in modo un po’ maldestro ma capisco che è una materia estremamente complicata. Eppure… non è la Nasa ragazzi. Basta che tra tutti ci veniamo incontro. Ognuno deve rinunciare a qualcosa e forse noi produttori dobbiamo essere i primi. Adesso siamo in un limbo e speriamo che il governo e le parti, ovvero tutte le associazioni di categoria, facciano in fretta.

Pensi che l’Italia debba avere una connotazione geopolitica precisa in chiave autoriale e di cinema del reale ancorati alla tradizione neorealista amata e premiata da Hollywood per tutto il ‘900 o sogni che si torni alla decade dei ’60 in cui eravamo fortissimi anche nel cinema di genere tra fantascienza, western, polizieschi, gialli, erotici e horror?

La difficoltà principale è comparare quel cinema al nostro cinema. Quel tempo al nostro tempo. Era un mercato gigantesco all’epoca. Bisognerebbe comparare al massimo le admissions (gli spettatori, N.d.R.) e non il box office perché all’epoca il cinema costava poco. Rocco e i suoi fratelli (1960) quarto quell’anno al botteghino italiano mentre La dolce vita era a poche “lire” di distanza da Ben-Hur… fa capire una relazione tra cinema e società che oggi non può più esistere. Secondo me, citando Hegel, certi momenti storici esprimono una forma d’arte integrale con la società del momento. Il cinema è stata la forma d’arte per eccellenza del ‘900. Quella roba come si fa a riviverla adesso? A livello internazionale noi oggi godiamo di ottima reputazione. Mi sorprende sempre la notorietà che Alice Rohwacher ha negli Stati Uniti dove viene fermata per strada e riempie le aule magne quando parla. Succede anche con Matteo Garrone e Luca Guadagnino. Devo prendere per forza una posizione? Il cinema italiano per me a livello internazionale si deve presentare come un qualcosa di esotico, pittoresco e molto intelligente. Nome e cognome: Alice Rohrwacher.

Ultima domanda che riprende l’inizio. La tua nuova scoperta si chiama Margherita Vicario. Dicci qualcosa di più di lei come regista visto che noi la conosciamo soprattutto come cantautrice.
Margherita Vicario è una gran lavoratrice nel senso che si adopera e si industria di giorno e di notte. È uno degli strani ingredienti che forse servono a fare una buona autrice? Assolutamente sì. Grandissima intelligenza, con una trascinante energia per il lavoro di gruppo. E poi secondo me ha un grande mondo dentro.

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