Quella con Gianni Amelio a Castiglione del Cinema è stata un’intervista fatta con il giusto e adeguato livello di deferenza. Per il formalismo dettato dalle questioni anagrafiche, Gianni Amelio ha quasi il doppio dei miei anni, per il dovuto rispetto nei confronti di un regista che, soprattutto negli anni novanta, faceva parte del mio bagaglio di visioni cinematografiche decisamente più eclettiche di quelle attuali in cui, per mille ragioni spesso riassumibili con il concetto di “sopraggiunta pigrizia”, ho meno tempo di spaziare e di saltare di palo in frasca come facevo a 16 anni. Gli anni in cui, dopo essermi rivisto Independence Day in VHS, mi guardavo anche Il ladro di bambini che avevo noleggiato insieme al blockbuster di Emmerich.

Un po’ perché, inconsciamente, sapevo che quella con Gianni Amelio sarebbe finita per diventare qualcosa di più di un’intervista sorprendente per come un regista, concedetemi l’impiego del termine “impegnato” per mera praticità, intende il cinema e il rapporto con la settima arte. Che non è di certo quello del 90% di chi, sui social, ha commentato l’intervista con Paolo Ruffini confermando ogni lettera delle parole dette dal comedian e regista al sottoscritto. Da qualche parte dentro di me sapevo che si sarebbe rivelata un’esperienza a metà fra una riflessione sul cinema e su come debba essere vissuto e un’amara considerazione su un Italia in cui qualcosa si è definitivamente spezzato, imbarbarito. E che avrei ricevuto la conferma che il trauma dell’aver subìto l’abbandono da parte di un padre può sì forgiare il carattere, ma è qualcosa che lascia comunque un vuoto dentro che sarà un tuo compagno di viaggio per tutta la vita.

Gianni Amelio

Sono stato adolescente negli anni novanta e ammetto che buona parte del cinema italiano di quegli anni l’ho vissuto anche tramite le gloriose VHS Cecchi Gori. Durante la serata in cui le è stato consegnato il premio alla carriera qua a Castiglione del Cinema ha parlato un po’ del suo rapporto con questa storica famiglia di produttori. Può raccontarmi qualcosa in più?

Diciamo che io il primo rapporto professionale l’ho avuto con Mario Cecchi Gori che stimavo da lontano per le grandi commedie che ha permesso fossero fatte da gente come Dino Risi. Non dimentichiamo che Cecchi Gori è il produttore del Sorpasso che è uno dei film più belli di tutti i tempi. Io pensavo che fossimo lontanissimi, io e Mario Cecchi Gori, per tante ragioni. Io nascevo in un ambito diverso dal suo. Una sera ci siamo trovati, come ci si ritrova qua a Castiglione del Lago, per ricevere entrambi un premio per un film. Era Porte aperte. Eravamo seduti vicini, con il premio posato per terra. Ci siamo presentati, anzi si è presentato lui. E mi ha detto “La regia è una cosa troppo delicata per affidarla a un regista. Con lei farei un’eccezione”. Dico “Guardi, se mi dà il suo indirizzo, la vengo a trovare in ufficio”. E lui “Ma venga anche in settimana, fra due giorni”. Sono andato e mi ha detto “Vuole fare un film? Le do carta bianca. Le do la possibilità di scegliere. L’argomento. Tutto” e io non c’ho pensato due volte e gli ho proposto “Lamerica” e lui mi ha risposto “A suo rischio e pericolo”. Però poi è andato tutto bene.

A proposito di Lamerica. Ammetto d’ignorare come vengano gestite queste cose nelle scuole oggi, ma ricordo che almeno due suoi film, Il ladro di bambini e Lamerica, li ho visto a scuola, al classico. Lamerica se non ricordo male durante un’autogestione proiettato in aula magna. Secondo lei il cinema può o deve avere anche una funzione pedagogica anche indipendente dall’eventuale portata artistica o d’intrattenimento di una data opera?

Penso che è semplicemente questione di metodo, è questione di approccio verso qualunque tipo di comunicazione, qualunque tipo di forma artistica, per quanto riguarda i giovani o i giovanissimi. Non bisogna spaventarli. Credo che bisognerebbe educare gli insegnanti a porgere ai ragazzi, poniamo di seconda media, un libro al posto di un altro, o un film al posto di un altro non discriminando. Non avendo l’idea che si tratta di un’opera d’arte perché questo può spaventare un bambino di dodici anni e farlo diventare un cattivo lettore da adulto o addirittura un lettore zero. E uno spettatore che poi al cinema non ci vuole andare.

È una questione di passione, di entusiasmo, dell’accensione di qualcosa che deve nascere dal divertimento. Io starei attento a dare a un ragazzo un romanzo, un film, o portarlo a una mostra o a fargli sentire un concerto partendo da lui e dal fatto che a dodici o tredici anni non possiamo illuderci che questo ragazzo possa indirizzare la sua scelta direttamente su Ingmar Bergman o Orson Welles. È giusto che cominci divertendosi. Poi nascerà qualcosa oppure non nascerà. Però intanto ci vuole una certa umiltà nel proporre le cose. Io per esempio non comincerei dai film miei. Comincerei dal Sorpasso per dire e poi arriverei a Lamerica o al Ladro di bambini. Anche io certe volte seguo delle proiezioni scolastiche, ma consiglio sempre di cominciare da cose più leggere. Per me ad esempio il germe stesso è stato l’andare al cinema da bambino a vedere magari anche i film d’avventura, tutto ciò che non viene considerato arte. È un concetto che è difficile, forse, sia da esprimere che da capire e da condividere. Ma io penso che il cinema deve arrivare prima come divertimento, poi come riflessione e come fatto culturale. A un bambino come ero io quando andavo al cinema in Calabria non bisogna dare subito il film d’arte, ma stimolare la sua curiosità facendogli capire che c’è qualcosa oltre la realtà del mondo di tutti i giorni. Un mondo dove si può sognare. Allora io ringrazio tutti i cosiddetti film di serie B che mi hanno fatto poi scoprire quello di serie A.

Sempre qua a Castiglione del Cinema ha parlato di un film a cui è molto legato come “Così ridevano”. Mentre mi stavo preparando per intervistarla nei giorni scorsi, mi sono imbattuto in una frase su Wikipedia che mi ha colpito perché etichettava il film come una delle sue opere di più difficile comprensione per il pubblico. Ammetto di non vederlo da tanto tempo, ma ricordo bene che quando lo vidi, non al cinema ma credo ci fosse ancora Tele+, non ebbi particolari problemi di “comprensione”: ora, indubbiamente a vent’anni ero mentalmente più agile di oggi però…

Parlerei di qualcosa che è quello che si definisce come il grande pubblico.

Il grande pubblico si valuta da numeri che sono quasi quelli da ascolto televisivo. Un film che raggiunge o supera il milione di biglietti staccati è un grande successo popolare. E non c’è nessun’altra possibilità di ottenere questo risultato se non tramite il miracolo che il film stesso compie. A me è successo due volte e non si trattava di facilità o non facilità di fruizione. Si trattava semplicemente di essere riuscito a cogliere l’aria del tempo che lo spettatore condivideva con me. A quel punto c’è una linea che unisce lo schermo a chi è seduto in sala. È un fatto misterioso che chi fa del cinema non conosce perché se lo conoscessimo faremmo tutti solo dei grandi film tutti quanti (ridendo, ndr.). Io posso dire che probabilmente c’è una forma più semplice di comunicare qualcosa e una forma un po’ più sofisticata, no? Ecco la forma che io ho usato nel Ladro di bambini è più vicina a una larga fetta di spettatori mentre Così ridevano è un film al quale bisogna accostarsi con una certa dose di conoscenza del cinema. Non è un film popolare, ma c’è anche della letteratura non popolare, della musica non popolare. Per rimanere alla musica cosiddetta “leggera” che io amo molto per dire anche nel repertorio di Paolo Conte noi troviamo qualcosa di più orecchiabile e qualcosa di meno orecchiabile. Allora se noi usiamo questo aggettivo, orecchiabile, ci sono film più orecchiabili e fim meno orecchiabili. Questo è il fatto.

Parlando di spirito del tempo, ho rivisto Hammamet di recente…

Ecco, Hammamet è stato un altro esempio di film arrivato al cuore del pubblico. Che ha fatto credo 1 milione e duecentomila biglietti solo in sala. È stato un fatto anche abbastanza sorprendente per noi perché lo consideravamo un film di nicchia in qualche modo, un film non accettato, controverso, che in qualche modo sfida il pensiero comune, si assume dei rischi. Però è straordinariamente raccontato.

Gianni Amelio Jasmine Trinca Paolo Genovese
Gianni Amelio (sx) Jasmine Trinca (centro) e Paolo Genovese (dx) in una foto ufficiale di Castiglione del Cinema (via Pagina Facebook CDC)

La cosa che mi ha colpito comunque è che anche se il commento sull’Italia del tempo è nella prima parte perché poi ci si concentra sulla figura decaduta di Craxi, proprio insieme a Lamerica mi ha fatto pensare – e non so se questa sia solo una mia masturbazione mentale o meno – su quanto gli anni novanta per questioni differenti come i flussi migratori o la politica del paese siano stati fondamentali per iniziare a far sentire defraudati di qualcosa quelli che sono stati adolescenti in quel periodo e quello che lo sono stati dopo, anche oggi volendo. Quella sensazione di non aver davvero toccato quel benessere che c’era stato e che oggi, anche per chi fa la mia professione per dire, non è minimamente raggiungibile rispetto alle generazioni precedenti. Cosa è successo secondo lei negli anni novanta? Sono stati davvero la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra epoca… un po’ più brutta?

Io considero gli anni ottanta soprattutto un po’ uno spartiacque rispetto alla cosiddetta Italia che risorge dal dopoguerra, l’Italia del boom, l’Italia dell’immigrazione interna eccetera eccetera. A distanza di decenni noi vediamo quel periodo come un tempo di benessere, come un periodo in cui c’era una speranza per le cose che sarebbero arrivate – e questo lo posso testimoniare anche io che non ero adolescente ma ero un giovane ambizioso diciamo. Vedevo come possibili determinate cose. Io, che venivo da un paese piccolissimo della Sila, senza nulla alle spalle se non l’entusiasmo e la passione, ho fatto il cinema che volevo e l’ho fatto in un ambito dove la politica era molto presente, però era meno barbara di quella di oggi. Molto meno. Oggi c’è un degrado a tanti livelli eh, non sto parlando un una persona nello specifico, c’è un degrado morale così forte da scoraggiare.

Da scoraggiare.

E ci si scoraggia sia da adulti, sia da vecchi che da giovani. Perché sembra un gioco perverso che coinvolge sempre determinate categorie di persone. Ci si meraviglia ogni giorno di quello che si legge, di quelli che si sente. Perché… è come se si fossero chiuse definitivamente delle porte di speranza. Allora non era così, anche se c’erano dei problemi. Diciamo che Hammamet e Il ladro di bambini non sono due cose differenti, ma sono le due facce di uno specchio. Da una parte c’è la gente comune, le vittime diciamo del sistema e dall’altra parte c’è il sistema. Il sistema che poi ha subito un ulteriore degrado e da quelli che politicamente possiamo considerare errori molto gravi si è arrivati a una deriva devastante. Io poi nel film voglio prendere la figura di quell’uomo politico che lei ha nominato un po’ come un quadro di Magritte che è molto famoso. C’è una pipa perfetta e sotto c’è scritto “Questa non è una pipa”. Perché ho voluto che la figura del Presidente fosse identica a quella dell’uomo politico? Perché fosse chiaro che io stavo parlando del potere in generale. Lasciamo stare: è lui, si vede che è lui. Però è anche metafora di chi dal potere cade a terra. E di come cade e di chi lo fa cadere. E allora io ritengo da essere umano e non da elettore in quel momento – non ho mai votato per il partito di quel presidente – io considero che dal punto di vista non solo politico, ma dal punto di vista dei rapporti da persona a persona, ci sia stato davvero un accanimento. Perché era un uomo che stava morendo. Stava morendo. E ha messo in gioco la vita, non si è piegato, perché era convinto di aver commesso errori, ma di non essere quel demonio che la stampa o gli avversari dicevano.

Poi quasi dal giorno alla notte.

Sì, ma mi ricordo di alcune… alcuni sondaggi d’opinione fra la gente. Le indagini in cui chiedi “Chi è la persona che salverà il mondo?” e tutti indicavano un certo giudice che poi il mondo non l’ha salvato affatto.

Decisamente no.

E quando si parlava di persone che avevano invece lasciato un’impronta diabolica lui era al terzo posto. Dopo Hitler e Mussolini. E questo, oltre che scandaloso, è anche crudele e disumano considerando che era una persona in fin di vita. Io vedo un uomo di potere che gioca gli ultimi istanti della propria salute per tentare di farsi capire. E considero il discorso che lui ha fatto in parlamento un atto di grande onestà politica. Dove ha ammesso tutto quello che di non giusto lui aveva fatto. Però ecco il film non vuole parlare della pipa. Questa non è una pipa (ridendo, ndr.).

Mi permetto di farle questa ultima domanda perché è una questione che si è frequentemente riflessa nei suoi film e perché ne ha parlato spesso anche lei, pure qua a Castiglione. Ed è qualcosa a cui penso spesso anche io, in maniera analoga a lei, anche io sono stato “dimenticato” da mio padre in tenerissima età. Glielo chiedo quasi come consiglio personale: questo trauma si supera?

Credo che non si superi. Credo che tecnicamente lo si supera, ma dentro resta. Dentro resta. Non so se lei ha letto un mio romanzo che è largamente autobiografico, s’intitola Padre quotidiano. È il rapporto fra me e mio figlio. La frase che l’editore ha voluto mettere inquarta di copertina è la seguente: “Quando a un padre si dice ‘Ma come le somiglia suo figlio! È il suo ritratto, le ha staccato la testa’ il padre si gonfia di orgoglio. Io invece volevo un figlio al quale con pazienza e fortuna avrei potuto somigliare io”. Ecco questo è il mio rapporto con mio figlio. Il contrario esatto dell’abbandono. L’abbandono io l’ho superato , anzi: mi ha fatto bene. Perché essere abbandonati spinge a forgiarsi da soli. Però poi nella vita resta un qualcosa… un vuoto che no. Non si colmerà mai. Ma è meglio avere questo vuoto che aver avuto invece un’attenzione superficiale ed egoistica. Intendo quando il padre sfrutta l’amore per il figlio per il suo tornaconto.

BadTaste ringrazia Castiglione del Cinema e il Comune di Castiglione per il supporto.

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