“Lo immaginavo che eri della stampa perché sei anche tu elegante come me” mi dice Paulo Ruffini entrando nel foyer del Nuovo Cinema Caporali, il cuore di Castiglione del Cinema, la rassegna ospitata a Castiglione del Lago in questo fine settembre che, con i suoi quasi 30° di temperatura, pare più fine giugno.

Effettivamente, lo accolgo indossando dei pantaloncini corti, delle sneaker e una t-shirt replica di una che Sheldon Cooper sfoggiava in alcune puntate di The Big Bang Theory. Lui mi saluta sfoggiando un paio di pantaloni verde militare e una camicia messa sopra a una t-shirt nera che riproduce la leggendaria foto finale di Shining. Quella con Jack Torrance immortalato nella sala grande dell’Overlook Hotel durante la festa del 4 luglio del 1921. Sì, proprio quella che, per un po’ è stata al centro di un prequel di Shining mai girato dalla Warner.

Ci scambiamo qualche convenevole, salta fuori che quando avevo 20 anni lavoravo in un grosso videonoleggio e a quel punto Paolo Ruffini – siamo quasi coetanei – mi mostra delle foto di casa sua dal cellulare, nello specifico della sua gigantesca collezione di ben 16.000 VHS recuperate da varie videoteche che stavano chiudendo.

Ci accomodiamo e cominciamo la nostra chiacchierata.

Visto che in passato hai curato svariate rassegne di cinema horror, volevo sapere qualcosa circa il tuo rapporto con l’horror moderno. Cosa ti piace? L’horror stile A24? Quello alla James Wan?

Sì, che poi l’A24 non fa solo horror, penso più alla Blumhouse. Jason Blum è riuscito a carpire un po’ la passione per un certo horror vintage… Non sono un fanatico di Jordan Peele. Devo dire che ultimamente trovo questa reiterazione di sequel e prequel, che l’horror ha sempre avuto, un pochino stucchevole. L’horror che piace a me è quello di It Follows, lo trovo straordinario. Però sento davvero la mancanza di certi autori e mi pare che si siano prese anche diverse cantonate nel genere. “È uscito il film di Ari Aster!”. Cioè anche ‘sti ca**i, non è che abbiamo detto chissà chi. Oppure Eggers. “Oddio il nuovo film di Eggers!”. Sì, ha fatto tre film di cui uno poi non è neanche chissà che. Per carità, lasciano ben sperare per il futuro, ma è difficile oggi trovare una filmografia significativa nell’horror come quella che ci ha lasciato John Carpenter che è ancora in attività fortunatamente.

Gioca molto ai videogame di recente.

Sì, però sai anche Wes Craven. Mi mancano quegli horror lì. Per me l’horror è sempre stato sintomatico della capacità di carpire le paure di un’epoca. Di recente nessuno secondo me, a parte per certi versi Black Mirror, ma poi andiamo a finire su Netflix e quindi a un altro ambito ancora, un film che sia riuscito a raccontare e trasmettere efficacemente le nostre paure social non l’ho trovato, non mi viene in mente. Si continuano a proporre queste “sore” (alla toscana, ndr.), queste case stregate, ma oggi come oggi, gli horror che ancora mi spaventano di più sono quelli di tanti anni fa. Fra quelli tra virgolette più recenti ti citerei Martyrs o quelli di Aja. Forse anche per colpa del profluvio di prodotto, anche qui per carità The Conjuring va bene, ma anche lì… hai queste saghe ma non vedo episodi “statici” per così dire di film che ti folgorano. Prima citavamo William Friedkin (durante le riprese di un contenuto video per TikTok, ndr.): ecco, sarebbe davvero bello vedere un autore che si cimenta col genere in un momento come questo che è davvero fatto di grandi paure. Una fobia che ha del grande potenziale per una rappresentazione sul grande schermo.

In passato con Stracult sei stato seduto “al mio posto”. C’è stato qualcuno che hai intervistato che ti ha messo davvero in agitazione al pensiero di doverci parlare?

Mi vengono in mente due persone: David Cronenberg e Jess Franco. Cioè andiamo proprio dal Manzanarre al Reno. Con Jess Franco ho fatto un’intervista meravigliosa. David Cronenberg mi ha messo completamente in ansia, ero del tutto in paranoia (ecco l’intervista su YouTube). Con Jess Franco… sai era un peridio in cui facevo queste interviste anche un po’ provocatorie, chiesi a John Woo se sapeva chi fosse Bruna Mattei. Erano tempi in cui non c’erano “i commenti”. Io ora amo il cinema ma non amo quelli che amano il cinema.

Concordo.

Siamo diventati insopportabili.

Pesanti, sì.

Sì, di una pesantezza insostenibile. Seguo alcuni gruppi che sono davvero intollerabili. Nel senso: io non vorrei mai un cinema che proiettasse solo film che piacciono a me. Non vorrei mai un Festival coi film che piacciono solo a me e difatti in quelli che ho organizzato no facevo vedere solo quelli che amavo io. C’è una coercizione artistica, di gusto fatta da parte di chi si arroga il diritto di sapere cosa sia bello e cosa no, per me è il contrario di quello che significa amare il cinema. Non è possibile che una persona non possa dire che Oppenheimer non gli è piaciuto. È una cosa insopportabile. Io, provocatoriamente, dico che è un filmetto. Posso volerlo dire senza che tu mi sputi addosso perché ora va di moda dire ”È il film di Nolan”. Ma chi se ne frega.

Io ho ancora degli sputi addosso per aver detto che mi è piaciuto, ma con tante riserve.

Ma è una cosa talmente stupida. Guarda sinceramente: sono felicissimo del successo che ha avuto anche perché quando lo sono andato a vedere la sala era piena di ragazzi, per la maggior parte intorno ai 15 anni, con la soglia d’attenzione di TikTok. Si sono visti un film di tre ore vedendo il cellulare in tasca: viva Oppenheimer, viva Nolan. Ma non è cinema, è moda. Sennò non ti dico la metà, ma almeno un decimo delle persone che hanno visto Oppenheimer sarebbero dovute andare a vedere Io capitano di Garrone di corsa. E non è accaduto. Vuol dire che si va a vedere il film di Nolan. Basta. È una moda. Come Barbie. Però questa moda serve a rinvigorire il cinema? Ben venga.

Paolo Ruffini Fuga di Cervelli

Parliamo di successo. Dieci anni fa eravamo a Lucca Comics per Fuga di Cervelli che ha avuto un successo strepitoso. Diciamo che avresti potuto “campare di rendita” con le commedie, ma poi ti sei interessato a tematiche riguardanti le persone down e chi ha l’Alzheimer. Come mai hai voluto raccontare queste realtà che, in Italia, non hanno l’attenzione che meritano?

Mi piacerebbe dirti che sono un filantropo, un eroe. Ma nasce tutto dalla noia. Noia e curiosità. Nel senso considera che io non sopporto i film in cui c’è l’autore che parla di qualcosa che gli è successo. Sono un meraviglioso vigliacco: faccio Up&Down ma non ho né un fratello né parenti down. Ho fatto un documentario sull’Alzheimer ma non ho mai conosciuto prima nessuno che lo avesse. E questa cosa per me è un carburante cinematografico necessario per fare un’indagine su qualcosa che non conosci. Essere testimone di un qualcosa di cui ho voluto ritrasmettere, o almeno provare a farlo, quello che ho provato. Che poi nel caso di Perdutamente, c’è tutto il concetto del mito dell’eroe di Vogler. Compio un viaggio e torno nel mio mondo ordinario con del materiale in più. Ed è questo il momento in cui il mio grande amore per il cinema mi ha un po’ tradito: ho trovato storie, nella realtà, che neanche al cinema sarebbero potute essere raccontate perché non sarebbero state ritenute plausibili. E quindi neanche al cinema, laddove c’è la possibilità di fare leva sulla narrazione di una fiction, avrei potuto raccontarla, quella realtà. Ed è stato entusiasmante.

Poi continua:

Tornando a Fuga di cervelli… è un film anomalo, era ultrafracassone, goliardico, un remake di un film spagnolo. Il secondo film che mi chiesero di fare dopo quello (Tutto molto bello, ndr.) lo sbagliai totalmente, perché andai in una direzione di favola completamente opposta. Insomma: non feci Fuga di cervelli 2. Ho fatto bene? Ho fatto male? Chissà. Però quel film lì quell’anno andò benissimo e fece anche più di quelli di colleghi che poi hanno fatto i secondi e i terzi. Quello fu anche l’anno terribile in cui andai a presentare i David di Donatello e io mi ero ritrovato ad avere un film che aveva incassato tantissimo ma, forse perché io non vado in giro a dire “li mortacci tua” ho meno credito rispetto ad altri che incassano meno, ma dicendo “li mortacci tua” lo hanno in modo anche più intensivo. E questa è una cosa che il mercato italiano sta ancora soffrendo tanto. Da toscano, non è che è una rivalsa su Boris e sui toscani che hanno rovinato l’Italia.

Però sai è strano che in Italia, durante il Covid, in tempi in cui i cinema erano chiusi, si siano fatti 350 film. Forse i contratti li facevano… sai come li facevano secondo me? Hai presente quelle tovagliette unte del Bolognese a Roma, in piazza del popolo. Hai presente no? Un po’ unte… ecco, quelli erano i contratti. C’è stato un momento in cui si è pensato più al tax credit che al film.

Cosa ne pensi dello stato della commedia e della comicità?

Non vorrei tornare nel grande dibattito del politicamente corretto. Oggi però Fuga di cervelli non lo potrei fare. T’immagini? Io vengo da te e “Ho il soggetto per un film di un impiegato, di un ragioniere che dice alla moglie che è un cesso, che picchia le sore e la figlia la chiama scimmia” (un riferimento a Fantozzi, ndr.). Oppure vengo da te e ti dico che vorrei fare un film dove ci sono due persone che naufragano su un’isola deserta, una lotta di classe dove lui è il mozzo e poi la picchia. La chiama “bo**ana industriale” (parla di una scena indimenticabile di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina Wertmüller, ndr.). Tutto quello che è il nostro bagaglio culturale, anche di commedia, di comicità, oggi sarebbe impossibile. Ti dico una cosa semplice: laddove la comicità non può esprimersi, perché cominci ad aver paura, che sia la paura di una qualche figura istituzionale o del Papa o anche, come avviene in questo stupido periodo storico così imbecille in cui hai paura del commento di RealCettina88 o di Giovanni da Frosinone… è sintomatico del fatto che il politicamente corretto è una pratica fascista. Punto. Non c’è altro. Se vuoi vedere un film politicamente corretto, devi andare quando c’era il pelatone, nel 1938 o nel 1940 e quello, alla fine, era il politicamente corretto. Hitler, quando era stato paragonato da un comico con un’illustrazione a un cavallo, o almeno mi pare, l’ha fatto ammazzare. Non ti dico che oggi non ci sia la libertà. Non pretendo la libertà di dire quello che voglio perché ce l’ho già. Ma vorrei avere la libertà di farlo senza che chiunque possa rompermi i coglioni. È questo il concetto chiave. Soprattutto c’è davvero questa deriva – pericolosa e violenta – che è quella in cui vedi Chris Rock che fa una battuta sul palco degli Oscar… in uno stato di diritto, se ti senti offeso, mi quereli. Se vai a dargli un pugno, sei un troglodita. Ragionando così giustifichi tutto, anche (la strage di) Charlie Hebdo. La satira deve fare la satira. Ti fa ridere? Non ti fa ridere? Ch se ne frega. In un paese civile, devo avere la possibilità di dire cosa voglio, di scherzare su cosa voglio. Che io ora non possa fare una battuta sugli omosessuali è un errore per gli omosessuali. È un’impossibilità sbagliata. Anni fa, prima di fare Up&Down, c’era un gruppo di 30 persone e le presi tutte in giro. Tranne un ragazzo down che poi venne da me e mi disse “Ma perché non m’hai preso per il c*lo? Perché mi hai escluso e non mi hai preso in giro come agli altri?”. A casa mia, prendersi in giro è anche un modo di volersi bene. E i social, a cui manca la lettera più importante, quella vocale alla fine per cui non credo che oggi Aristotele direbbe che “L’uomo è un animale social”, non mi paiono proprio la fucina dell’amore. Ed è una cosa sbagliata. Pensa al nostro patrimonio cinematografico, da Arancia Meccanica a Pasolini. Pensa a Salò. Tutta roba impossibile oggi. C’è una frase bellissima di Adorno, della scuola di Francoforte, secondo cui noi riusciremo a superare una tragedia come la Shoah, quando riusciremo a fare una battuta sugli ebrei senza provare imbarazzo (Adorno era un ebreo poi convertitosi protestante, ndr.). Oggi non viviamo in una democrazia. Viviamo una fasciodemocrazia. E il problema principale dell’arte, e del cinema soprattutto, è che il pubblico ha smesso di fare il pubblico. E se il pubblico smette di fare il pubblico, non capisci più a chi ti rivolgi. Perché il pubblico vota già da sé comprando o non comprando un biglietto o cambiando canale. T’immagini se, al cinema, dovessimo verbalizzare tutto quello che pensiamo? Non riusciresti a vedere il film. Ed è quello che accade oggi. Tutti verbalizzano i loro pensieri e non si riesce più a vedere il film.

BadTaste ringrazia Castiglione del Cinema e il Comune di Castiglione per il supporto.

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