Continuiamo il ciclo di interviste industry, iniziato con Roberto Proia e proseguito con Maria Carolina Terzi, stavolta parlando con Mattia Guerra, ex Managing director cinema and production presso Lucky Red dal 2011. Precedentemente Guerra ha ricoperto i ruoli di Direttore Marketing Theatrical per Eagle Pictures dal 2008 al 2011 e Product Manager Medusa dal 2004 al 2005.

Innanzitutto come nasce la passione per questa cosa qui che ancora chiamiamo “cinema”? Anno, film, personaggio, tematica?

Nasce in Africa nel 1982 quando avevo 3 anni e vivevo lì con i miei genitori. Ho un ricordo particolare di un film in una sala di Modadiscio. Era un grande telo bianco dove veniva proiettata una pellicola sulla rivoluzione francese. Alla fine tagliavano la testa a Maria Antonietta. Era qualcosa di gigantesco e da quel momento papà mi ha portato più di una volta sempre in quel cinema dove anche se ogni tanto saltava il proiettore, l’atmosfera era sempre molto bella perché si respirava una grande emozione collettiva. Non avevo tanti amichetti e mi sembrava tutto gigantesco e bellissimo. Poi, tornato in Italia, ho scoperto i cicli di film su Mediaset con il cinema per ragazzi, da Spielberg a Karate Kid (1984), e poi anche il Lunedì film su Rai Uno con la sigla tratta da una canzone di Lucio Dalla. Penso che queste esperienze abbiano alfabetizzato i ragazzi della nostra generazione. Mi ricordo anche cicli più impegnati su Kieslowski con dei critici cinematografici che presentavano film anche a notte fonda. Vedere un film e poi sentirne parlare mi ha aiutato a conoscere sempre di più il cinema. I ragazzi come noi rimanevano colpiti e avevamo sempre più strumenti. Dopo queste esperienze il cinema è diventata una grandissima passione ma avevo sempre più strumenti per conoscerlo e studiarlo.

Che cos’è il prodotto audiovisivo per te?

Per me è una passione che si coniuga con una professione. Ho la fortuna di lavorare in un settore che mi entusiasma e che soprattutto ogni volta si rigenera e diventa nuovo. Quando pensiamo che la realtà si sia consolidata siamo spesso smentiti da pubblico e altri fattori improvvisi…

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Quand’è che la passione ha battuto il raziocinio nella tua carriera?

Molte volte. La passione ha superato il raziocinio quasi subito nella mia vita quando ho deciso di intraprendere questa carriera perché avevo fatto una serie di studi che ipoteticamente mi avrebbero allontanato dal cinema. Avevo programmato la mia vita su altro, visto che sono figlio di un medico. Però poi ho fatto la domanda al Centro Sperimentale di Cinematografia e probabilmente fare quella domanda ed entrare lì mi ha permesso di conoscere gente nuova e facendo il Centro la passione è diventata un percorso formativo più delineato. Un fatto più specifico quando la passione ha superato il raziocinio è quando ho visto Il Piccolo Principe (2015) di Mark Osborne a Cannes e mi sono innamorato del film alle prime immagini. Ho capito di trovarmi di fronte a una cosa straordinaria. In quel momento lavoravo in Lucky Red e sono andato di corsa da Andrea Occhipinti chiedendogli di autorizzarmi a comprarlo. Facemmo una piccola follia economica per quanto riguarda l’acquisizione ma poi il film è diventato un grande successo (in Italia il film di Osborne ha incassato 9,5 milioni di euro a fronte di 97,6 milioni di dollari ottenuti worldwide, N.d.R.). E poi ovviamente non posso non citare Lo Chiamavano Jeeg Robot (2015) di Gabriele Mainetti. Lo avevano scartato tutti quando mi contatta il produttore esecutivo Jacopo Saraceni dicendomi che siccome amavo molto la cultura e l’arte pop proveniente dal Giappone, forse avrei apprezzato l’opera. Lo vedo, rimango sbalordito e quando approccio Mainetti gli dico: “Avrai la fila fuori, no?” quando invece lui mi guarda strano e mi risponde: “No. Ma perché… sei interessato?”. Quello stesso pomeriggio chiudemmo l’accordo di distribuzione in Lucky Red. Lo considero un film spartiacque dentro il cinema italiano.

Tu l’avresti fatta la saga?

All’epoca sì. Oggi ti direi che forse è stato meglio così. Col senno di poi, meglio così. Magari il sequel avrebbe snaturato l’aura mitologica del film. Probabilmente ha avuto ragione Gabriele in quel momento.

Un grande errore compiuto in carriera?

Mi scoccia dirlo ma forse il remake/sequel di …Altrimenti ci arrabbiamo (2022) è stato un erorre perché, a prescindere dalla qualità, da noi ha dimostrato che difficilmente queste operazioni funzionano bene. Gli americani sono più capaci di trasformare i brand. In Italia questa cultura non c’è. Siamo andati a toccare un mostro sacro popolare e attraverso un’operazione che rendesse omaggio abbiamo poi scoperto che il pubblico avesse avuto più la sensazione che il film fosse un affronto alla tradizione. Tramite quell’esperienza, ho capito che certe operazioni da noi sono molto, molto difficili da fare.

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Un grande colpo assestato?

Il film 18 regali (2020). La storia è ispirata alla straordinaria vicenda umana di Elisa Girotto che, ammalata di cancro, prima di morire ha lasciato una lista di 18 regali da dare alla figlia appena nata. Quando ho letto l’articolo del giornale ho contattato Alessio Vincenzotto che con grande coraggio e delicatezza si è messo a disposizione per raccontare questa storia affinché potesse diventare un esempio di speranza per altre donne che affrontano questo percorso. Da lì è stato un lavoro di team, cosa che io adoro perché ognuno porta il suo mattoncino. Non posso non citare la centralità di Serena Sostegni all’interno del progetto.

Cos’è la cosa più importante che hai imparato del mestiere in questi anni?

Saper ascoltare tutti. Il nostro è un lavoro di gruppo ed io ho la fortuna di lavorare bilanciandomi tra produzione e distribuzione. Saper ascoltare e captare quello che ti dicono le persone è semplicemente essenziale. Inutile arroccarsi nel proprio punto di vista.

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Cos’è che ti piace di più in questo momento? Quella “cosa” che quando la vedi pensi: “È perfetta”?

Il fenomeno che più mi esalta è quando vedo che tutti gli sforzi che si fanno per produrre un film poi si combinano perfettamente con quelli che fai per distribuire l’opera, sempre con la tua società, come ci è successo per anni in Lucky Red. Quell’esperienza è la “cosa” perfetta. Mi torna sempre alla mente 18 regali e poi anche La befana vien di notte (2018). La befana è stato interamente fatto e distribuito da noi e la grande soddisfazione è stato vedere quanto il pubblico di bambini lo abbia apprezzato. Eravamo molto contenti anche di Elf Me (2023), realizzato insieme a Mainetti in produzione e attualmente su Prime Video. Il film con Lillo protagonista è stato complicato da realizzare ma sta funzionando bene all’estero. Siamo stati bravi a parlare anche a un pubblico internazionale.

Anche tu Mattia hai attraversato 20 anni decisivi nella storia dell’audiovisivo, dai primi anni 2000 a oggi. Cosa succederà secondo te ancora a questa “cosa” nata nel 1895?

Rimarrà sempre centrale nel nostro immaginario. Non possiamo prescindere dal cinema. Anche le nuove generazioni che si sono formate con i social media, li vedo che quando entrano in una grande sala cinematografica si emozionano. Penso che questo rimarrà per sempre.

Qual è il regista che ti ha colpito di più con cui hai collaborato e la star che ti ha sorpreso di più da vicino?

La star è sicuramente Russell Crowe. Quando distribuimmo The Nice Guys (2016) ho avuto occasione di vederlo da vicino perché venne a Roma per la promozione. Un personaggio fantastico ed anche una persona estremamente disponibile a differenza di quanto mi era stato detto. Umile e pronto a sorridere alle persone. Questo mi ha colpito molto. Il regista è Gabriele Mainetti perché penso sia un grandissimo sia a livello tecnico che a livello umano. Possiede un grandissimo immaginario. È sempre pronto a raccontarti qualcosa di diverso. Trasformare la realtà prendendo spunto dal suo immaginario nuovo che attinge dal passato è sempre entusiasmente.

Si produce troppo secondo te in Italia?

È una domanda che ci siamo fatti spesso in questi ultimi due anni. Si produce più di quello che si vede. Produrre molto però ti permette di scopire nuovi mondi e nuovi talenti. Ora c’è una possibilità produttiva in Italia che un tempo ci saremmo sognati. Mancava un cinema medio che ora riusciamo a fare. Quello che manca è un ricambio generazionale e rispetto a quanto si produce il “vulnus” più forte è che si produce sempre con gli stessi attori e anche io faccio fatica da questo punto di vista. Possiamo riassumerlo così: si produce troppo cercando qualcosa di ovvio e si produce poco cercando di sperimentare.

Pensi che l’Italia debba avere una connotazione geopolitica precisa in chiave autoriale e di cinema del reale ancorati alla tradizione neorealista amata e premiata da Hollywood per tuto il ‘900 o sogni che si torni alla decade dei ’60 in cui eravamo fortissimi anche nel cinema di genere tra fantascienza, western, polizieschi, gialli, erotici e horror?

Sono molto laico. La cosa che deve funzionare è la storia e i personaggi. Se lo fai con il genere oppure con il cinema del reale è uguale. Un regista può essere non fortissimo a livello tecnico ma farti una storia pazzesca oppure il contrario. Io amo molto il cinema di genere perché attraverso il genere si può sperimentare e creare nuovi mondi che il pubblico magari riesce a comprendere meglio a una seconda visione. Quello che manca oggi è rinnovare gli autori. Penso che ci manchino dei giovani autori che impongano la loro voce in Italia e all’estero. Torniamo sempre lì: si sperimenta poco e si cerca l’ovvio.

Chiudiamo con la tua nuova carica di amministratore delegato di BeProduction che è una società del gruppo BeWater. Come descriveresti questa nuova avventura?

BeWater racchiude due diverse anime: Chora produce podcast e racconta storie con piglio cinematografico in modo che si possano creare delle “intellectual property” che poi possono sempre diventare altro. Poi c’è Will che sarà forte sui social. Be Water è l’idea di liquidità, un’idea molto moderna che ci possa permettere di essere anche sperimentali. Tu puoi raccontare un podcast che poi diventa un documentario o un film di finzione. La commistione è la forza del nostro gruppo. Si parte da un racconto, da una storia, che attraverso la filiera assume diversi aspetti per poi essere fruito in tanti modi diversi.

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