Meryl Streep arriva devastata sul palco della sala Debussy. È lei a dirlo, all’inizio dell’incontro. La sera prima, all’apertura di questo festival di Cannes, ha ricevuto la Palma d’Oro alla carriera e, dice sempre lei, ha finito a fare le tre del mattino alla festa successiva, parlando del film che è stato proiettato dopo la consegna del premio. Le Deuxieme Acte di Quentin Dupieux, proprio con Dupieux. Le è piaciuto tantissimo. Poi aggiunge un’altra cosa, rispondendo alla prima domanda, e cioè cosa abbia provato nel ricevere il premio: “Ho sentito le lacrime salirmi in gola. Vivo una vita molto quieta e davvero non è che goda di un gran rispetto in patria. Per me è incredibile arrivare qui ed essere investita da quest’ondata!”

La sala è gremita, tutti sono in piedi, gli applausi non si fermano. E l’incontro è appena iniziato.

Sei una cinefila vero?

“Mi vergogno di dire che… Una volta c’erano un certo numero di film da vedere tra il Ringraziamento e il primo gennaio, uscivano tutti i film più seri, quelli in corsa per dei premi e quindi si dovevano vedere tanti film e sono così vecchia da aver lavorato con tutti e se li incontro e non ho visto il loro film sono… una stronza. Quindi per risponderti: non ne ho visti abbastanza, e poi ho quattro figli grandi, ma non vuol dire che sia finita! Ho 5 nipoti… quindi insomma: non ne guardo molti. È una vita piena, ma me la sono scelta ed è quello che ho. Quindi no, non ne ho visti tanti ma mi sono vista Camille in ogni puntata di Dix Pour Cent (da noi Chiami il mio agente!)… mi innamoro di attori e attrici, ma ci sono solo un certo numero di ore nella giornata”.

Non è la prima volta che vieni a Cannes…

“Ricordo che la prima volta che venni mi dissero: Ti serviranno 9 bodyguard! Risposi che non ne avevo in patria e quindi nemmeno qui. Invece ne avrei avuto bisogno una dozzina! Una volta non c’era la security e non c’erano tutte le barriere: la gente e i giornalisti ti stavano addosso, era follia, quasi non mi sono ripresa, sono tornata in hotel che tremavo. È stato selvaggio. Parliamo di 35 anni fa. Il mondo è cambiato. Questo è il mio ricordo! Non ricordo nemmeno il momento in cui ho ritirato il premio, ero spaventatissima, non sono una rockstar”.

Si che lo sei!

“Non ho una vita piena di cose iperboliche come una premiazione a Cannes!”

primo piano meryl streep

In Kramer contro Kramer è vero che hai riscritto il tuo discorso finale, quando testimoni? Come hai dato forma a quel personaggio?

“Per chi ha meno di 70 anni: Kramer contro Kramer parla di divorzio, si basa su un romanzo fatto con rabbia, pieno di senso di vendetta. Eravamo all’inizio dei primi movimenti femministi e la gente non è che ne fosse felice, quindi c’era veleno riguardo le donne che non fanno quello che è prescritto, che lasciano questi poveri uomini a crescere i figli. Nel romanzo non è chiarissimo perché lei lasci il marito. Glielo dissi eh, credo che non gli interessasse (all’autore) perché lei lasciasse il marito, gli interessava il dilemma del padre tra lavoro e un figlio di 4 anni. Nel film, quando Robert Benton lo prese e cominciò a lavorare alla sceneggiatura (era anche il regista) disse che all’inizio rompono, lei se ne va e la gran parte del film è Dustin Hoffman che si avvicina al figlio come non è mai stato, poi la madre dopo 18 mesi torna e gli fa causa per avere la custodia. Ben disse ‘Perché se ne va?’ e Dustin: ‘Io lo so!!’. Così tornammo dalla costumista e ognuno di noi tre scrisse la sua versione del discorso finale, votammo e vinse il mio!”

Il film fu uno di quelli di cui all’epoca si parlò tantissimo, entrò nella conversazione generale. È possibile realizzare quando un film non è solo un film ma scatena discussioni in tutto il paese?

“Credo che ogni film viva del suo momento, anche se è ambientato in un’altra epoca, oppure viene fatto per fare soldi. Che è un’altra cosa. Ma i passion projects e quelli che sono difficili da finanziare perché non sono “certi”, appartengono al loro tempo, anche i più scemi, quelli che sono puro intrattenimento. Ci portano via da qualcosa magari di triste (lo fanno le commedie) ma comunque parlano del loro tempo. Kramer di certo centrò il suo momento, il femminismo, le sue conseguenze e la strada accidentata che ci ha condotto qui.”

È vero che stavi per lasciare l’Oscar dimenticandolo nel bagno?

“Sì è vero, lo appoggiai per andare al bagno e poi me ne sono andata dimenticandomi di averlo messo io. Per fortuna la persona che è entrata dopo di me lo ha trovato”.

Il cacciatore è stato un altro film molto importante, te ne rendesti conto all’epoca?

“No per niente. Pensavo solo che il mio lavoro stava nel lato famigliare, nella visione limitata di una ragazza di provincia. Io vengo dal New Jersey e molti ragazzi della mia città sono andati in Vietnam e non sono tornati; il mio ragazzo ci andò e tornò con una dipendenza dall’eroina. Ebbe un effetto nelle vite di molte di noi. Conoscevo quell’effetto, e il microcosmo emotivo della storia. Invece con la parte fatta in Vietnam non avevo niente a che fare. Ma realizzo solo ora che Cimino in quel film non sapeva bene cosa potesse dire il mio personaggio, e mi lasciò scrivere la mia parte per la scena del supermercato”.

Ci sei solo per 10-12 minuti eppure sembra che tu stia in tutto il film, anche perché sei la ragione per cui vogliono tornare. Come si fa? Cerchi di riuscire a farlo ogni volta?

“No. Devi considerare che erano gli anni in cui c’era una sola donna in un film, quindi te la ricordi bene. Ti ricordi i suoi capelli”.

È anche la prima volta che canti in un film

“Sì, ma anche gli altri!”

E da lì poi hai cantato in tantissimi film, musicali e non. Ti piace cantare nei film?

“Quando ero bambina ho preso lezioni di canto lirico e poi ho fatto cheerleading al liceo. Cheerleading e fumo! Che hanno un po’ rovinato tutto. Ma non mi piaceva tanto l’opera, mi piaceva Joni Mitchell e il rock. Amo la musica e penso che cantare stabilisca una linea diretta verso il tuo cuore. Alla scuola di recitazione l’insegnante di recitazione era la migliore, si rivolgeva a tutta la classe e diceva che a turno avremmo cantato qualcosa di importante per ognuno di fronte a tutti, qualcosa di importante che ci avrebbe fatto piangere. I ragazzi ridevano della cosa e dicevano che non l’avrebbero fatto. Poi disse: ‘Quando canti apri qualcosa, una linea diretta con il cuore, la testa non è coinvolta. È la melodia e il sentimento’ e aveva ragione. Fece cantare ognuno di quei ragazzi. Uno cantò una cosa per la madre, mamma mia che commozione… Io invece cantai It’s lonely at the top di Randy Newman. Quello sì che fu strano! Lo intendevo ironicamente perché non avevo una lira”.

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La scena della scelta in La scelta di Sophie so che l’hai fatta in un ciak è vero? È complicatissima

“No: furono due. Quello nel film è il secondo perché nel primo la ragazzina non sapeva cosa sarebbe successo e quindi guardava l’uomo senza reazioni, nel secondo invece sapeva che l’avrebbe presa e quella reazione è quella che ti spezza il cuore. È una ragazza fantastica. Ora credo lavori a Parigi, un avvocato o una donna d’affari”.

No no, quella è una grande scena e tu sei il centro di quella scena. Cosa provavi?

“Dovevo parlare in tedesco, e lo imparai, ma avevo letto la scena una volta sola. L’avevo memorizzata e non potevo nemmeno rivederla, tanto mi dava fastidio. Non la provammo nemmeno. Pakula sapeva benissimo dove stare con la camera, io non avevo nessuna consapevolezza della cosa. Era veramente disturbante e ammetto che non amo ripensarci”.

Hai una formazione classica, teatrale, questa cosa ti aiuta? E come?

“Ti aiuta a vedere. La cosa che ha un valore, almeno per me, è riuscire ad essere vuota. Ho una tecnica chiaramente. Ho avuto tre insegnanti diversi di recitazione alla scuola di recitazione, uno ogni anno, perché li licenziavano. Così ho avuto tre formazioni diverse, che è una gran cosa! Perché ho una scelta tra tecniche. Ma in quelle scene così forti e drammatiche, ogni volta è come partire da zero. La sera prima ogni volta dico ‘Non mi sono mai sentita così’ o ‘C’è qualcosa che non va nella sceneggiatura’ ma è perché ti smonti ogni volta e arrivi così, cruda, senza protezione. Il mestiere e la tecnica servono quando in una giornata di 17 ore devi scendere dalla macchina e dire ‘Che ci fai qui’ per 70 volte perché non va bene al regista. Hai bisogno di tecnica per non saltargli al collo”.

Sei fantastica con gli accenti, li usi come una maschera?

“No. Se avessi interpretato donne del New Jersey per tutta la vita non sarei in questa stanza. Sono uno strumento per fare altre cose. Avevo un coach una volta per un film su cui facevo un film con un accento australiano, che era molto simile a quello nord irlandese del film precedente che avevo fatto, e stava con le cuffie mentre giravo. Riuscivo a sentirlo disapprovarmi. Non ce la posso fare. So che molti si trovano bene, ma io faccio senza coach. Faccio da sola. Ho una certa facilità alle volte mi trovo al telefono con un call center indiano e finisco a parlare con un accento indiano! La cosa interessante è quanto capisci che ci somigliamo più di quello che pensiamo e riprendendone l’accento mi rendo conto quanto una persona diversa da me non è diversa da me”.

Alle volte ti bastano piccoli gesti per raccontare un personaggio, ti basta levarti un orecchino per rispondere alla cornetta del telefono per farci capire che è una persona importante. Sono tue idee quei gesti o vieni diretta?

“Dipende. Per esempio Mike Nichols sembrava sempre non mi dirigesse ma in realtà lo faceva in modi obliqui. Scherzava sempre ma sempre con un punto in cui arrivava che aveva a che fare con la scena, era brillante e ti dava spunti per cose da provare. Si sedeva accanto alla macchina da presa e se rideva gli uscivano le lacrime, era disarmante e in un certo senso strategico. Ci faceva sentire potenti e che ogni cosa facevamo fosse fantastica. Tanto lo sapeva che ogni cosa non gli piacesse poteva buttarla al montaggio, ma gli attori si sentivano potenti. So che lo pensano tutti quelli che hanno lavorato con lui”

Spielberg?

“È un genio. Ha una comprensione della messa in scena. Nichols era interessato agli attori e alle interazioni. Spielberg invece è interessato a tutto il movimento di tutto il film. Magari Nichols se ne occupava dopo, al montaggio. Ma Spielberg ha già tutta la musica in testa, fin dall’inizio. In La mia Africa in una scena notturna con grandi luci, queste luci attraevano insetti di tutti i tipi. La ripresa era lunga e avevo una camicetta lilla e non appena danno l’azione sentii un insetto grandissimo entrarmi nel collo e camminarmi sull aschiena. Lo sentivo e non sapevo nemmeno se mi avrebbe morso, ma ci era voluto così tanto per il costume che non avevo coraggio di dire niente. Alla fine dissi a Roy “Ho una cosa sulla schiena’ lui me la schiacciò facendo un casino. Non credo mi avrebbe morso”.

In La mia africa c’è la più memorabile scena di shampoo di sempre…

“In quel momento Redford mi dovrebbe lavare i capelli in quel fiume e ci avevano detto di stare attenti a due cose: i leoni (che però venivano dalla California ed erano ammaestrati, anche se poi si è capito che non lo erano) e poi l’animale più pericoloso per l’uomo, cioè l’ippopotamo. Se stai tra un ippopotamo e l’acqua di può caricarti e ucciderti. Non so nemmeno se si vede nel film ma io mentre giravamo potevo vederlo avvicinarsi. Redford mi stava lavando i capelli, non era né sexy né buono per la scena. Arriva il mio parrucchiere e gli insegna come farlo, Robert lo impara al volo, al quinto ciak mi ero già innamorata. Era una scena intima praticamente, vediamo spesso scene di sesso ma non vediamo mai quella cura e quel tipo di tocco. Vorrei non fosse mai finita nonostante l’ippopotamo che incombeva”.

La mia Africa ti ha portato un trionfo mondiale, un incasso gigantesco, ti ha reso (scusa la parola) bankable. Questo ha cambiato qualcosa?

“Non lo notai, ma credo che il mio agente lo abbia notato. Mi innamoravo delle storie, non ho mai ambito a un blockbuster, quelle che sono diventate blockbuster come Mamma mia! o Il diavolo veste Prada li ho fatti a 58 e 60 anni. Non pensavo che sarebbero stati grandi successi ma sapevo che la mia presenza poteva far sì che si facessero. Quello sì”.

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Nelle storie romantiche a cui prendi parte le donne non sono mai quello a cui siamo abituati. È per quello che le scegli?

“A me sembravano sempre storie d’amore. Si forse un po’ diverse dal solito. Ma mi sembravano storie romantiche. Spesso sono donne con un lavoro che non sia il loro uomo, in La mia Africa è una scrittrice che cerca di tenere vive le persone di una piantagione di caffè, sono donne che hanno una vita al di là dell’uomo”

Penso che i ponti di Madison County sia uno dei più grandi film di tutti i tempi.

“Clint Eastwood che autore! E fece quel film in 5 settimane! Chiudendo ogni giornate alle cinque del pomeriggio per poter giocare a golf. Girava in fretta, spesso provava davanti alla macchina da presa e poi finiva che non si faceva la scena, teneva la prova, usava quella per il film. Quindi la troupe era sempre pronta, perché ogni prova poteva in realtà essere definitiva. E poi non urlava mai. Solo una volta, nella scena della cucina quando sentì qualcuno parlare fuori dal set. Madonna, aprì la bocca e uscì un suono così potente come nessuno gli aveva mai sentito fare”

È dagli anni ‘90 che parli e denuncia il trattamento ingiusto delle donne sul posto di lavoro e nel tuo lavoro. Sono passati 30 anni eppure ancora non c’è parità.

“Ma ci sono stati progressi, una volta nelle negoziazioni avevamo sempre la peggio. Oggi non è esattamente più così. I film sono una proiezione dei sogni delle persone e anche i produttori hanno dei sogni, anche loro con i film vivono la loro fantasie. Prima che ci fossero donne in quella posizione era difficile per gli uomini vedersi in una protagonista femminile, ma non era difficile per le produttrici vedersi in un protagonista maschile. Per un uomo è molto più difficile vivere un film attraverso una protagonista femminile. È personale. Non tutto riguarda i soldi. Semplicemente quelle persone non ci arrivavano. Il primo film per il quale mi è capitato che degli uomini mi dicessero “Ho capito come si sentiva quel personaggio” era Il diavolo veste Prada. Ma nessun uomo guarda Il cacciatore sentendosi la ragazza. Anche se io o altre donne possiamo identificarci con i personaggi di John Savage o Robert De Niro. È difficile per gli uomini capirci, empatizzare con noi”.

Negli anni ‘90 ti battesti contro il fatto che l’unico film con una protagonista femminile era Pretty Woman, in cui la donna è una prostituta. Pensi oggi sia cambiato?

“Certo! Natalie Portman, Nicole Kidman… Tutte hanno una casa di produzione e creano film con ruoli eccezionali per le donne. Le ammiro veramente tantissimo. Non potrei mai, io dopo le sei di sera non voglio ricevere telefonate”.

Però dai il tuo tempo al movimento Time’s Up.

“Si lo feci nel 2017, ora è come fosse storia passata. Pensò cambiò le cose non solo a Hollywood ma nell’industria dei servizi, anche per le cameriere per dire. Ebbe un effetto a tutto tondo negli affari. Ci sono le stesse assurdità ma hanno un po’ più paura adesso. Oggi gli abusi vengono identificati per quello che sono”.

Sei stata eccezionale in The Iron Lady ma sappiamo che politicamente la pensi diversamente. È difficile interpretare un personaggio che non vede il mondo come te?

“Tante cose erano interessanti di lei. Il film era interessato alla fine del potere, al processo di ridimensionamento di un grande potere, che non è né maschile né femminile. Com’è quando la gente declina? Il livellamento del tempo, l’età e la confusione di tutto questo. Era quello che mi interessava. Ci sarebbe un film da fare sulla sua ascesa, come è successa e perché le cose sono andate così. La sua amicizia con Reagan per esempio. Ma non era quello che facevamo. Quando ero bambina, a otto anni, disegnavo sulla mia faccia con la matita per le sopracciglia di mia madre per farmi le rughe come quelle di mia nonna. Mia madre mi fece una foto in bianco e nero e sembro io oggi. Mia nonna mi diceva sempre “Sono come te, nella mia testa posso rotolarmi sul pavimento” e mi faceva pensare tantissimo questa cosa, il cerchio di chi siamo dentro di noi e cosa diventiamo fuori. Quindi invecchiarmi per The Iron Lady è stato soddisfacente… artisticamente era come se tornassi a quella pratica”.

Meryl Streep Don't Look Up sciopero

In Don’t Look Up hai fatto la presidente degli Stati Uniti. Quanto è stata ispirata dal peggiore presidente degli Stati Uniti che ci sia mai stato?

“Adam McKay è un regista eccezionale, così divertente. Il suo intento è di far passare un messaggio attraverso una battuta. E ha fatto un gran lavoro. Non ho imitato un presidente in particolare ma ho perso molto di come le donne presentano in televisione, i colori sgargianti per esempio”.

Hai interpretato personaggi di tutti i tipi. Ci sono categorie più difficili di altri? Quelli in costume o magari quelli più comuni, quelli indecisi o quelli di fantasia?

“Io sono sempre in costume, devo sempre decidere cosa indossare. Lo facciamo tutti ogni mattina, decidiamo chi essere, se integrarci, scomparire o spiccare. Quando facemmo Innamorarsi che non era un dramma in costume, c’erano le prove costume, De Niro aveva 32 piccole chino jackets, si controllava le maniche e i colori. Perché ogni decisione definisce una persona. I personaggi molto outsized aiutano come quello di La morte ti fa bella. Ma per me è come fare un film in costume. Essere quel modello superfemminile è un modo di definire una persona e divertirsi, non penso in termini di ciò che è realistico o non realistico ma di persone che cercano di fare del loro meglio per vivere. In Adaptation o in altri film in cui interpretavo persone in vita, che magari erano pure sul set a guardarmi, io penso sempre a me, non a loro. La scena avviene con l’altro attore, ed è in quell’interazione che trovi quello che ti serve”

Da She-Devil hai fatto tantissime commedie!

“Non ho una società di produzione quindi il mio lavoro dipende da che copioni ricevo. E mi piace così. Non compro i diritti dei libri. Anche se in realtà adesso l’ho fatto. Lo stiamo sviluppando. Ma di solito non lo faccio. La mia vita familiare mi prende tutto il tempo. Insomma non faccio differenze, sono tutti esseri umani. Come dice Cechov ‘Nelle cose più tragiche c’è sempre una nota di umorismo’, c’è sempre qualcosa di cui ridere. Anche in La scelta di Sophie”.

Hai lavorato con i migliori registi che esistono. Chi è per te un buon regista?

“Uno che ha fiducia in se stesso. È la cosa migliore per me. Uno che sa cosa vuole dire, sa come essere lì, dare fiducia al grupo. Quelli eccezionali poi creano anche un’atmosfera divertente sul set ma quello non è necessario. Necessario è avere l’idea che quella persona vuole raccontare quella storia, e anche in una commedia ha un approccio appassionato e serio”.

Che fai quando sei sul set e non lo senti?

“Vado a casa e mi sveglio il giorno dopo”.

Cosa diresti a degli studenti di recitazione in crisi con la loro carriera?

“Mantenete le vostre speranze, vi basta un ruolo, se va a segno vi porterà al prossimo. È così che va. Non perdete le speranze”.

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