La recensione di Patagonia, il film di Simone Bozzelli presentato al festival di Locarno

American Honey ma in mezzo ai trentenni, tra figli, techno e smalto cancellato. Nomadland senza la serenità di una vita nei grandi spazi ma con l’elettricità dell’underground campagnolo di una specie di Burning Man degli Abruzzi. L’ambientazione di Patagonia (che non è la Patagonia ma individua nella Patagonia un paradiso dei sentimenti in modo un po’ facile) è tutto e lo rende, nei suoi momenti migliori, un film di amore & lamiere tra le sterpaglie aride, di ricerca di un coming of age che il protagonista sembra aver atteso per anni nel più improbabile dei luoghi, reso con viva partecipazione e uno stile visivo adeguato, quello con la grana del 16mm, dai colori e dal contrasto giusti, che dà alla storia un tono da cinema indipendente urbano e sensibile di fine anni ’90. 

È quando il film deve iniziare a far lavorare la sua scrittura che scricchiola. I presupposti sono un grande classico...