Terra di Siena: Pioneer, la recensione
Frastornato dagli sbalzi di pressione Pioneer si aggira come il suo protagonista, senza punti di riferimento ma tenace. Peccato non tutto sia a fuoco
Il thriller per Skjoldbjærg sembra passare per la distorsione della percezione, già Insomnia (che ispirò l'omonimo remake americano diretto da Nolan) lavorava sulla privazione di sonno e la difficoltà per un protagonista di essere all'altezza del suo ruolo eroico anche vessato da allucinazioni, fatica e difficoltà percettive. Ora Pioneer compie la medesima operazione con lo stordimento da sbalzo di pressione, localizza la cattiveria che vuole raccontare sul mondo dei pressurizzati e come in un film americano degli anni '70 trova nelle armi tecniche, negli strumenti di lavoro (le camere iperbariche) i mezzi per le proprie torture e minacce. Ne esce un film molto originale nella sceneggiatura ma anche terribilmente sciapo nella realizzazione, che pare affidarsi interamente alle sue inquadrature ravvicinate e alla poca profondità di campo con cui viene comunicato lo stato alterato di Petter.
Il cast misto norvegese e americano è ai minimi sindacali della recitazione, così ogni sfumatura diventa un grido, ogni dettaglio microscopico uno macroscopico. Come in un tv movie le parti vengono svelate subito da sguardi truci immotivati e timorose smorfie di paura, in questa storia di segreti e ombre ogni elemento purtroppo è alla luce del sole per lo spettatore. Ciò che pare contare di più sono le sequenze d'azione e di suspense (molte e ben fatte) che però annegano in un mare di sottolineature ovvie e ben presto perdono il pathos che la storia dovrebbe dargli. Ciò che Skjoldbjærg sembra avere realmente a cuore è farci entrare nella testa di Petter, farci barcollare come lui in soggettiva, farci perdere riferimenti come lui ma anche avere la sua tenacia. Il suo sforzo però è più tenico che narrativo.