Frankenstein

Mentre August “Auggie” Pullman viene paragonato in Wonder di Stephen Chbosky nell’ordine a Gollum, Freddy Krueger e un fantomatico Darth Vomitus (per ferirlo circa il suo amore per Guerre Stellari), con Roy Lee “Rocky” Dennis l’insulto principale è Frankenstein oppure un più generico: “Ehi tu, levati la maschera”. Rocky è il protagonista di un gran film datato 1985 per la regia di Peter Bogdanovich e con Auggie condivide una brutta malattia che ne ha alterato profondamente la conformazione del volto (in termini medici: displasia craniodiafisaria). Ma se Auggie è un personaggio fittizio, invece Rocky è realmente esistito come il Joseph “John” Merrick di The Elephant Man di David Lynch anche se Bogdanovich ne cambia data di nascita e morte (1961-1978 nella realtà; 1964-1980 nella finzione) romanzandone ovviamente larga parte dell’esistenza. Ma il film è comunque molto rispettoso (stupenda la consueta fotografia naturalistica del maestro ungherese László Kovács), sincero, pieno di musica rock (Bogdanovich si era messo d’accordo con Bruce Springsteen anche se dovette ripiegare su Bob Seger) e vivace. Come in Wonder siamo dentro casette borghesi e high school dove il nostro eroe viene accolto da qualche diffidenza ed insulto prima di conquistare tutti grazie a senso dell’umorismo, dinamismo intellettuale e una profonda conoscenza dell’Iliade. Staremo con lui per un intero anno scolastico vissuto nella cittadina di Azusa, vicino Los Angeles. Accanto a Rocky c’è una madre molto diversa dalla Julia Roberts di Wonder.

Cher & Co.

Al Festival di Cannes vince a mani basse Miglior Attrice. All’Oscar non arriva, incomprensibilmente, nemmeno una nomination (ma l’aveva avuta l’anno prima con Silkwood). Nel film è magrissima, grintosa (a due minuti dall’inizio della pellicola “cazzia” il preside del liceo di Rocky interpretato da Ben Piazza, il “padre” brutalizzato cinque anni prima al ristorante da John Belushi in The Blues Brothers di Landis), problematica (abusa spesso di stupefacenti), forte, bella, brutta, debole, intelligente e stupida. Una prova pazzesca e a tutto tondo. Il suo personaggio è così complesso da pensare che senza la sua fragilità Rocky non avrebbe mai potuto sviluppare quel senso di responsabilità che vediamo così bene lungo tutti i 120 minuti di Dietro La Maschera. Come se lei fosse una sorta di parafulmine o catalizzatore di problemi per proteggere un figlio già dannatamente colpito dalla vita a pochi mesi dalla nascita. Dietro il makeup di Rocky da vittoria all’Oscar per Michael Westmore e Zoltan Elek (batterono quell’anno Il Mio Nome È Remo Williams e Il Colore Viola) c’è un giovanissimo Eric Stoltz, così bravo da convincere Zemeckis a scritturarlo come futuro protagonista di Ritorno Al Futuro. Poi sappiamo purtroppo come sarebbe andata al povero Eric: sostituito in quello stesso 1985 da Michael J. Fox dopo sole quattro settimane di riprese del film di Zemeckis. In questo caso con Bogdanovich funzionò tutto a meraviglia tanto che il regista de L’Ultimo Spettacolo (1971) e Paper Moon (1973) sarebbe diventato una sorta di mentore del giovane attore. Nel formidabile cast anche una giovanissima Laura Dern nel ruolo dell’innamorata cieca di Rocky (la potete ancora trovare in sala nei panni del Vice-Ammiraglio Holdo in Star Wars: Gli Ultimi Jedi) e un serafico Sam Elliott nei panni del biker saggio al fianco del personaggio di Cher come compagno sentimentale (Steven Soderberg avrebbe modellato sul suo look baffuto l’ottimo Aaron Eckhart di Erin Brockovich – Forte come la verità).

Conclusioni

Siamo convinti che il bravo Chbosky di Noi Siamo InfinitoWonder abbia dato un’occhiata a Dietro La Maschera di Bogdanovich prima di iniziare la sua terza regia. C’è la stessa America fieramente borghese (anche se Rocky & Mamma sono meno ricchi dei personaggi di Wonder), quel tocco pacato collegato al film con malattia, ironia e voglia incrollabile di non ammorbare lo spettatore con un drammone strappalacrime ricattatorio. Tutto questo nasce grazie a Dietro La Maschera, contenente la splendida poesia, fittizia, scritta da un Rocky che riflette con malinconica ironia la centralità esistenziale del proprio volto deforme. Fa così: “Queste cose sono belle: un gelato e una torta, una corsa sull’Harley, le scimmie che giocano sugli alberi, la pioggia sulla lingua e il sole che splende sul mio viso. Queste cose, invece, non sono belle: i buchi nei calzini, la polvere nei capelli, niente soldi nelle mie tasche e il sole che splende sul mio viso”.

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