Macchine mortali ha tre padri, molti modelli e un riconoscimento che non vorrebbe: quello di uno dei più grandi flop del suo decennio. Il primo genitore è lo scrittore Philip Reeve che nel 2001 si posizionava in mezzo alla corrente dell’esplosione di romanzi Young Adult. Il suo era un fantasy steampunk dal pronunciato aspetto politico. Una saga con più strati di lettura e con una costruzione radicale di un mondo post apocalittico. La guerra dei 60 minuti, condotta dagli uomini del passato (ovvero noi) ha distrutto la terra. La nuova civiltà si è strutturata in città mobili. Delle enormi macchine (le città trazioniste) sono in grado di spostarsi verso i luoghi più ricchi di risorse. Per contendersi il territorio le più grandi possono inglobare le più piccole in un processo di darwinismo urbano. 

Tanto è geniale e fresca la simbologia del libro, tanto è difficile da credere e da realizzare nel film. Qui entra in gioco il secondo padre: Peter Jackson. Il regista che per un periodo fu frainteso da tutti. Dopo il successo del Signore degli Anelli ci fu una pioggia di proposte di adattamenti. Il Re mida delle trasposizioni dalle saghe letterarie era in realtà quanto di più distante da questa idea di cinema e cercò a lungo di evitarlo. Amabili resti non andò bene. Lo Hobbit fu un progetto spesso schivato, fino a che l’ultimo colpo lo prese in pieno costringendolo a mettere in piedi una nuova ed estenuante trilogia. 

Nel 2009 gli capitò tra le mani Macchine mortali. Si vociferò per un periodo che l’avrebbe diretto lui stesso. Il film finì nei cassetti dei progetti da sviluppare per molti anni. Quando si sbloccò in cabina di regia c’era il terzo padre: Christian Rivers

Macchine mortali fu promosso come il film prodotto (scritto però in piccolo) da Peter Jackson e Fran Walsh con tutto il resto del team del Signore degli anelli (tra cui la sceneggiatrice Philippa Boyens). Non abbiamo dati a sostegno di questa ipotesi, ma nel 2018 l’impressione fu che i pochi che acquistarono il biglietto andarono con l’idea di vedere un film di Peter Jackson. 

Invece Christian Rivers, neozelandese, stretto collaboratore del regista, è un esordiente con in mano un budget di 100 milioni. Certo ha fatto la seconda unità de Il drago invisibile. Certo, dopo un inizio come artista degli storyboard ha lavorato a tutti i film di Peter Jackson collaborando agli effetti visivi. È un artigiano che ci sa fare. In effetti Macchine mortali ha un buon impianto visivo, una gestione sensata della computer grafica anche se non priva di limiti. Ci sono dei momenti di green screen evidente, il povero Shrike con una grafica da Playstation, alternati a città dettagliatissime e set coinvolgenti.

Macchine mortali

Il puzzle di Macchine mortali

Fatto sta che Macchine mortali se lo videro in pochi. Oggi quelli che lo ricordano sono ancora meno. Non tanto perché il film sia brutto, riesce a fare molte cose bene, in altre eccelle, anche se alterna sempre con delle cadute. Il problema risiede nella sua identità; frammentato tra molte suggestioni il film manca di una mano sicura che gli dia una direzione precisa, invece di tentare tutte le strade contemporaneamente. 

Macchine mortali ricorda tante cose. Ma mai se stesso. Nel precedente speciale sul film il nostro Gabriele Ferrari usava Mad Max: Fury Road per osservare, attraverso un contrasto, le debolezze del film. In un deserto post apocalittico l’unico modo per sopravvivere è viaggiare, spostarsi, uccidere. 

Protagonista è una ragazzina, Hester Shaw, che ha visto qualcosa da piccola poco prima dell’omicidio di sua madre. Dovrebbe essere sfregiata tanto da nascondere il suo volto, ma la cicatrice non le impedisce di essere la protagonista carina di cui ci si può innamorare. Dura e cinica, ma dotata di cuore e compassione, è sullo schermo una Katniss Everdeen di Hunger Games, o così vorrebbe. Hera Hilmar non è Jennifer Lawrence, ma persino lei si sarebbe persa nell’anonimato con dialoghi come quelli che le vengono affidati. Il suo interesse amoroso (o il contrario?) è Tom Natsworthy. Il modello su cui è stato ricalcato è quello di un personaggio che starebbe bene ne Le cronache di Narnia. Affascinante, ma non troppo, un po’ goffo e viziato ma capace di adattarsi. Buono e coraggioso, apprendista in un museo. 

Macchine mortali

Tanti film dentro Macchine mortali

Come Star Wars il bello del film è la comprensione e l’esplorazione dei mondi attraverso gli oggetti. Ce ne sono tantissimi e tutti sono molto curati. Basterebbero loro a parlare del passato con una sintesi molto maggiore di tutti gli spiegoni. Macchine mortali inizia con la sua scena migliore. Londra che mangia una cittadella. Un inseguimento simile alla caccia di un animale selvaggio. Bellissimo!

Solo che il senso di scala, cioè portare il grande ad essere superato dal grandissimo e da qualcosa di ancora più enorme tanto che il primo oggetto ci sembra piccolissimo, viene subito abbandonato. Guillermo del Toro ha fatto con Pacific Rim un intero film concettuale per esplorare questo effetto. Rivers usa il suo insegnamento solo all’inizio e in qualche momento del terzo atto. Il fatto che in qualche inquadratura master le città assomiglino a delle automobili un po’ strane e non a dei veicoli estesi per chilometri è un errore imperdonabile. 

Ci sono le opere di Roger Dean negli esterni, Snowpiercer negli interni. Un po’ Laputa – il castello nel cielo e un po’ Il castello errante di Howl, Macchine mortali attinge proprio all’immaginario Ghibli. Il concetto suona bene su carta quanto è ben espresso dal film. Poteva dedicare due ore solo a mostrare i mezzi aerei, i meccanismi di movimento, e avrebbe fornito un intrattenimento equivalente alla versione con una storia. 

Il problema inizia quando la prospettiva diventa quella dei personaggi. Quando è al suo meglio il film sembra riproporre l’attesa della battaglia del fosso di Helm. Al suo peggio le scenografie sembrano venire dalla comica The Crimson Permanent Assurance dei Monthy Pyton

I nemici che hanno sbagliato film

C’è Hugo Weaving che ha ripreso il set di espressioni facciali dell’Agente Smith di Matrix. Il suo Thaddeus Valentine è un cattivo cattivissimo, dalla testa ai piedi. Fa facce cattive, azioni riprovevoli e ha un piano folle. Molto più riuscito è l’incontro tra Frankenstein e Terminator, ovvero Shrike. Che brutta la sua fine e che brutta CGI! Però i villain che vanno dritti per la loro strada, senza che nessuno li possa fermare, hanno sempre un grande effetto. Anche se non si capisce bene come faccia a essere così presente in tutti i luoghi e così velocemente, lui c’è. Quando arriva in scena porta con se un senso di dramma che si perderà poi nel brusco finale. 

In questo ingranaggio di suggestioni prese da altrove il film fatica a trovare se stesso. Funzionano di più le sequenze di raccordo, i soldati che si preparano al combattimento, le astronavi in volo, rispetto alla sostanza drammatica. Difficile legarsi ai personaggi. C’è tanta carne al fuoco, tanto da fare. Così il film continua a indicare allo spettatore qualcosa di cui si dovrebbe interessare, qualcosa da guardare, altro da tenere a mente. A lungo andare manca però l’olio, tutto inizia a stridere. Le comparse (o meglio i personaggi secondari) praticamente annunciano le proprie morti. Tutta questa cura della complessità, del world building, finisce in una banale consequenzialità di sceneggiatura. Gli oggetti fanno tutto quello che ci si aspetta. Hanno malfunzionamenti quando la sceneggiatura lo richiede. Si aprono e fanno scoprire qualcosa al loro interno quando è più conveniente. 

Macchine mortali finisce alla svelta con una repentina chiusura. L’idea di non dare respiro alla storia per chiudersi è che il vento sta portando i due protagonisti alla loro seconda avventura (un sequel che non vedremo mai). Guardando indietro invece in questo finale all’improvviso si vede il segno dei freni di un meccanismo ormai definitivamente inceppato.

Macchine Mortali è su Netflix. Potete invece seguire BadTaste su Twitch!

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